Il primo passaggio al Parlamento di Bangkok della legge sulla maternità surrogata ha inviato un’onda d’urto nel mondo. I. di Baby Gammy, affetto da sindrome di Down, rifiutato inizialmente dalla coppia australiana che aveva invece subito accolto la gemellina sana, e del cittadino giapponese già “padre” di 15 bambini nati con pratiche surrogate nel Paese, sono stati una pubblicità negativa troppo forte per essere tollerabile e così la bozza di legge presentata in agosto ha avuto un binario preferenziale. Il voto del 28 novembre ha posto in un limbo donne in attesa di figli su commissione, puerpere, bimbi già nati e famiglie committenti, con gravi conseguenze potenziali per tutti gli attori coinvolti, d’altra parte, il “caso” thailandese è di tutto rilievo (con un valore stimato di 125 milioni di dollari l’anno) e il risultato del dibattito parlamentare significativo per il futuro della pratica, almeno in Asia.
Unica con l’India a condividere l’accettazione della surrogata internazionale sul proprio territorio, la Thailandia si trova ora a essere riferimento per una regolamentazione che tanto deve alla sua situazione politica, nazionalismo e controllo militare crescenti, quanto era debitrice in precedenza a una liberalizzazione arbitraria e interessata. Molti, anche nell’area Asia-Pacifico, cominciano così a guardare a Nord e a Nord-Est, verso paesi come Azerbaijan, Bulgaria e Romania che non hanno leggi specifiche ma un’industria della maternità surrogata, e verso Bielorussia, Russia e Ucraina aperti agli aspetti commerciali della pratica. Non un rischio per l’India che, forte delle sue necessità e delle sue dimensioni demografiche, è un “mercato” del valore di almeno 500 milioni di dollari l’anno (fino a un miliardo per alcune fonti). Possono usufruirne cittadini di paesi asiatici e del Pacifico (Giappone, Hong Kong, Singapore, Taiwan, Australia, Nuova Zelanda…) dove le pratiche surrogate sono proibite, diretti finora soprattutto verso la Thailandia, unica in Asia ad accettare anche committenti single o coppie dello stesso sesso.
Lo stesso vale per i cinesi della Repubblica popolare, dove la pratica è bandita, almeno ufficialmente, e di certo non aperta verso l’estero. Significativamente, però, le coppie cinesi preferiscono tentare la sorte negli Stati Uniti, a costi maggiori, con la speranza aggiuntiva di potere un giorno reclamare per la prole la cittadinanza Usa. L’India diventa così mercato di preferenza, con una legge ad hoc ferma dallo scorso anno in Parlamento.
Qui la maternità surrogata è ammessa legalmente dal 2002, e dal 2008 anche quella a carattere commerciale per una sentenza della Corte Suprema. Una pratica aperta anche a donne straniere, dopo che nel 2009 l’Alta corte del Gujarat ha riconosciuto che la nazionalità della madre surrogata determina quella del bambino da lei nato.
Resta il fatto che, al di là delle considerazione specifiche sulla barbara pratica dell’utero in affitto, la situazione solleva il problema di un doppio binario riguardo la sicurezza delle gestanti e delle partorienti nel Paese dove una donna muore ogni otto minuti per complicazioni della gravidanza o del parto. Stefano Vecchia

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