Chi fu il vero mostro del XX secolo, Stalin o Hitler? «Oh, non farti tentare dalle equivalenze morali». Martin Amis ha ricevuto risposte del genere da tutti gli intellettuali di sinistra cui ha posto la domanda. Primo fra tutti il suo amico giornalista e guru dei liberal americani Christopher Hitchens. Ma Amis ha continuato a chiedere. In questo modo si è giocato l’amicizia con Hitchens, cui non perdona di non essersi distanziato da Stalin, ma ha dato alla luce un libro che affronta uno dei grandi tabù dei liberal americani ed europei: quello che impedisce di mettere gli orrori del comunismo, pur denunciati dalla sinistra, sullo stesso piano di quelli del nazismo. Amis, che ammette di non essere uno storico o un esperto di filosofia politica ma un romanziere, comincia il suo «Koba the dread. Laughter and the Twenty Million» (Koba il terribile. Risate e i venti milioni), uscito da poco negli Usa e in Gran Bretagna da Hyperion, citando una frase dal libro del massimo storico della Russia sovietica Robert Conquest sulla collettivizzazione forzata. «Possiamo mettere questa vicenda in prospettiva – scrive Conquest in “The harvest of sorrow” – dicendo che a causa delle azioni qui ricordate circa 20 vite umane furono perse per ogni lettera di questo libro». Il libro è lungo 411 pagine, sottolinea Amis.
Allora perché tanti, come Hitchens, possono ancora ridere (le “risate” del titolo del libro) della loro passata infatuazione con il comunismo o addirittura difenderne i fini, come nessuno oserebbe fare se avesse trascorsi fra le SS?
Amis tenta di dare delle risposte, alcune più convincenti, altre meno. Una spiegazione viene dalle conversazioni avute con il padre, lo scrittore Kingsley Amis, durante il suo lento ed amaro abbandono dell’idelogia marxista. Amis cita un passaggio dal saggio in cui il padre sentì di dover giustificare perch& eacute; “aveva svoltato a destra”. «L’ideale di fratellanza fra gli uomini – scrive Amis il vecchio – della costruzione della Città Giusta, non può essere dismesso senza lasciare per tutta la vita un senso di delusione e di perdita». Una spiegazione che al figlio, che prova simpatia per il percorso intellettuale del padre, non basta. «Che cos’è questa Città Giusta? – si chiede – che cosa direbbero e farebbero tutto il giorno i suoi abitanti? Come si riderebbe nella Città Giusta?». Quello che l’autore implica è che la ricerca dell’utopia comunista implica la volontà di mettere il fine prima dei mezzi e nasconde il desiderio di un regime totalitario.
I 20 milioni menzionati dal titolo sono le vittime, secondo i conti degli storici citati da Amis, dei gulag, delle esecuzioni politiche e della carestia provocata dalla collettivizzazione forzata fra il 1917 e il 1953, anno della morte di Stalin. Amis fa il paragone con i 6 milioni dell’Olocausto, ma poi si ritrae. Non si tratta di contare i morti, spiega, ma di dare a quei 20 milioni una dignità che non hanno mai avuto. «Sembra – scrive – che i Venti Milioni non provocheranno mai quel senso di decoro sepolcrale che il ricordo dell’Olocausto risveglia. Non sarebbe così se non fosse per qualcosa nella natura stessa del bolscevismo». Questo qualcosa è, secondo l’autore, l’impossibilità durante le purghe staliniste di definire esattamente chi fosse il nemico. Nelle testimonianze citate del libro più di una volta si coglie l’assurdità di un orrore le cui vittime, al contrario dei campi di concentramento nazisti, non capivano l’origine o il motivo. Molti prigionieri nei gulag, ricorda Amis, all’inizio erano convinti di essere vittime di un errore, o di una macchinazione fascista, e che il partito avrebbe capito e li avrebbe liberati. «Il nazismo – s crive Amis – non distrusse la società civile. Il bolscevismo la distrusse».
Ma “Koba il terribile” (Koba è il soprannome che Stalin si era scelto) non è un libello politico. Amis è un romanziere, e quello che sembra interessargli di più è capire perché nella percezione collettiva non si è ancora radicata questa “equivalenza morale” fra Hitler e Stalin.
Amis si sente chiamato a questo compito da motivi personali, familiari, e nel libro introduce digressioni autobiografiche che a volte suonano fuori luogo in mezzo alla litania di torture, pestaggi e umiliazioni perpetrate per ordine di Koba e alla descrizione di una carestia così terribile (nei primi ani ’30) che i corpi venivano accatastati nelle strade.
Alla fine il merito maggiore del libro di Amis sembra quello di sollevare l’argomento. Il 53enne Amis, lui stesso considerato un intellettuale liberale, riconosce che gli ideali illuministici cui il program ma bolscevico diceva di aspirare hanno per decenni creato una patina di tolleranza in Occidente. Ma è ora di guardare a fatti, conclude, in nome di quei Venti Milioni. da New York Elena Molinari
[Da “Avvenire”, 11 settembre 2002]