Vorrei non morire solo. La dignità della fine

Anche l’uomo Gesù, crocifisso e morente, gridò: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Si legge che il cardinale di Milano, Carlo Maria Martini, avesse paura “non della morte in sé ma dell’atto del morire, del trapasso e di tutto ciò che lo precede”. Paura “di perdere il controllo del suo corpo e di morire soffocato”.  E nei suoi ultimi scritti, già molto sofferente, era tornato a più riprese sul tema. Scriveva “entrare nell’oscurità fa sempre un po’ paura”. E, più specificatamente nell’intervista Conversazioni notturne a Gerusalemme (Mondadori, 2008), confessava “mi auguro che possa esserci qualcuno vicino a me a tenermi la mano”.

Era un cardinale, era un uomo, era uno di noi… ammettendo la sua umana fragilità, riconosceva nella vicinanza degli affetti l’unico possibile sollievo nel momento del distacco: una mano che si stringe ad un’altra, una carezza, una voce amica che ascolta e accompagna l’addio. Una continuità di affetti che non vuole spezzarsi. E il diritto ad una morte umanamente dignitosa.

Quale affermazione potrebbe essere oggi più pregnante e più evocativa? Il tema della dignità dell’uomo occupa uno spazio centrale nella storia millenaria della filosofia morale, della teologia, e anche del diritto. È l’archetipo e il fine di tutti i diritti fondamentali ed è il cuore del principio personalista che ha segnato il costituzionalismo contemporaneo. Non è un caso che riferimenti espliciti li troviamo in molteplici documenti internazionali e in varie Costituzioni. Una per tutte quella tedesca che esordisce, al suo articolo 1, con la seguente espressione: “Die Wurde des Menschen ist unantasthbar”, “La dignità dell’uomo è intangibile”.

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E quale idea meta-positiva, la dignità umana ha sempre evocato la sacralità. Nel comune humus culturale dell’Occidente, l’ethos della dignità umana di matrice cristiana e quello di matrice secolare non sono antitetici, ma compatibili e complementari. Parlare della dignità umana ha dunque senso in questa “tempesta inaspettata e furiosa” che ci ha travolti per usare le parole del Pontefice. Una tragedia collettiva nella quale non possiamo non associarci alla condivisa gratitudine nei confronti dei medici, degli infermieri, degli operatori sanitari e dei volontari che, con generosità, hanno operato per fronteggiarla. E che spesso hanno pagato la vita con la loro abnegazione.

Difficile dimenticare queste assurde morti sul campo e difficile continuare con la retorica forzata dell’”andrà tutto bene”. Negli ospedali i numeri dei pazienti deceduti o intubati continuano a salire. Persone costrette a lasciare il mondo in modo crudele e inumano, come testimoniato da quella lunga fila di camion militari che trasportavano bare su bare, non accompagnate da nessuno, ai forni di cremazione.

Ci interessa qui ricordare una frase tratta dal libro Dovere di Daniel Vogelmann (Giuntina, 1974): «Un destino infelice è uno scandalo insanabile». Ecco, qui e ora possiamo dire: «Una morte così è uno scandalo insanabile». Dovranno essere ricordate una per una le migliaia di persone che hanno lasciato la vita terrena, nella sofferenza fisica, senza il conforto xi un parente. Che sono andate via così, lucidamente, in una solitudine che disorienta e sgomenta, accompagnate – quando possibile – dallo sguardo, dalla parola, dal gesto del solo personale medico-sanitario, cui è stato affidato anche questo ulteriore, straziante, compito.

Eppure non siamo più nel Seicento, ai tempi della peste di manzoniana memoria, sotto il nefasto dominio degli spagnoli. Nelle medesime terre oggi martoriate dal nuovo virus – e anche altrove – ragionevolmente, da chi di dovere, dovranno essere trovati accorgimenti organizzativi e tecnologici ed eventualmente predisposti presidi ad hoc affinché il momento della morte, il più solenne, il più sacrale degli eventi, avvenga nel rispetto della dignità degli individui.

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Per chi conclude la sua corsa. E per chi resta.

Fonte: il Giornale 30/03/20

Autrice: Ginevra Cerrina Feroni

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