Don Andrea Santoro, il sacerdote romano assassinato in Turchia, è un martire del nuovo millennio. Di lui s’è molto parlato e scritto, in Italia e non solo. Anche Benedetto XVI per lui ha usato parole impegnative. Ma per uno che finisce in prima pagina – in virtù delle particolari circostanze dell’uccisione – quanti ogni anno versano il loro sangue nel disinteresse dei cattolici stessi e nell’oblio colpevole dei media? In molti posti al mondo, testimoniare Cristo può costare la vita. Accade oggi, nel XXI secolo. Come accadeva agli inizi della storia cristiana.
Se nella cultura attuale il tema-martirio trova scarsa audience o – addirittura – suscita avversione, è anche per una malintesa e fuorviante concezione della fede radicatasi in taluni. C’è, infatti, chi opera un’equazione assolutamente indebita tra il praticare una fede e l’essere intolleranti, come se automaticamente la “pretesa” di aderire a una verità trascendente si traducesse in prevaricazione sull’altro e, in ultima analisi, in violenza. Il martirio, letto così, altro non sarebbe che l’effetto collaterale di una fede troppo sicura di sé. Detto in modo più diretto: i martiri sarebbero gente incapace di “mediare”, di accettare e di farsi accettare nello scenario di pluralismo religioso odierno. In definitiva: se la sono… cercata. A questa concezione fa pendant un concetto assolutamente improprio di dialogo, secondo il quale le religioni dovrebbero abbandonare le loro pretese universalistiche per trovare un minimo comun denominatore, in nome del quieto vivere (e – aggiungo io – del relativismo culturale imperante). Secondo tale ottica il martire sarebbe uno che, non sapendo “dialogare”, ha voluto chiudersi nel bozzolo del suo fanatismo, andando perciò incontro all’incomprensione e, in definitiva, all’ostilità. Un’ostilità che poteva essere evitata, se solo non fosse stato così “fondamentalista”…
Si tratta di una caricatura profondamente ingiusta, oltre che pericolosa, del martirio cristiano. La realtà, per chi la guarda con occhi limpidi, è un’altra. Ogni giorno migliaia di cristiani – in Pakistan, Indonesia, Sudan, Nigeria, Cina, Colombia… – sono oggettivamente esposti al rischio della discriminazione, dell’arresto arbitrario, del pestaggio, e non di rado della morte, semplicemente a motivo della loro fedeltà al Vangelo. Da questo punto di vista i missionari occidentali – se talvolta finiscono nel mirino dei fondamentalisti in quanto stranieri – sono comunque meno esposti di molti laici e religiosi locali per i quali, in caso di morte violenta, non si scomoderanno le tv e non si muoverà nessuna ambasciata.
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Non è forse scandaloso tutto ciò, in un’epoca che si fregia di voler estendere i diritti umani a ogni latitudine? Forse che il diritto di credere non appartiene al novero dei diritti umani fondamentali?
Nell’estate del 2005 ho incontrato a Guangzhou, nel corso di un viaggio in Cina, padre Tan Tiande, un sacerdote novantenne che ha passato trent’anni nei campi di lavoro forzato. Un “martire vivente”, insomma. Ebbene, padre Tiande mi ha descritto minuziosamente le durissime condizioni di vita in quell’inferno (qualcosa di molto simile a un lager), nell’estremo nord della Cina: d’inverno la temperatura scendeva a meno 30, lo stomaco era costantemente nella morsa della fame, punizioni corporali e oppressione psicologica erano all’ordine del giorno e così via. Eppure mai, nemmeno per un momento, padre Tiande ha avuto parole di odio o vendetta per i suoi carcerieri. Che differenza con tanti alfieri del martirio di casa nostra, così pronti a intingere la penna della denuncia (giusta e doverosa, per carità) nell’inchiostro di un risentimento che di evangelico ha poco o nulla!
Anche se ce ne siamo dimenticati o, pur sapendolo, non amiamo rammentarlo, il punto è che l’esperienza del martirio è connaturale alla vocazione cristiana e alla vicenda missionaria in quanto tale. Chi annuncia e testimonia Cristo “e questi crocifisso” (1Cor 2,2) non può non mettere in conto l’incomprensione di chi ascolta, finanche la reazione violenta, di una violenza che può sfociare nella tortura o nell’omicidio. Il Nazareno, a suo tempo, era stato estremamente chiaro: «Se hanno perseguitato me perseguiteranno anche voi…» (Gv 15,20).
Oggi siamo preoccupati, e giustamente, del montare del fondamentalismo islamico che semina terrore e morte in molte parti del mondo. Sarebbe però fuorviante pensare che esso rappresenti l’unica prova per i credenti in Cristo. I dati dicono altrimenti. In realtà, ogni volta che il cristiano, in nome del Vangelo, si assume il rischio di testimoniare l’amore per i nemici, la tensione infaticabile al dialogo, la ricerca della pace, ebbene, ogni volta che in qualche modo il cristiano va controcorrente rispetto alla cultura dominante, si mette in una condizione di estrema vulnerabilità, una condizione che a volte assume il volto dell’ostilità latente, altre quello dell’aperta persecuzione. In ogni caso, a quanti si comportano così, mostrando con le parole e con la vita di avere solo Dio per Signore, appare chiaro che la loro testimonianza, la loro semplice presenza in determinati contesti può dar fastidio. A dispetto delle più pacifiche intenzioni.
È il caso dei sette monaci del monastero di Notre Dame de l’Atlas, a Tibhirine, in Algeria, sequestrati dieci anni fa (nella notte del 26-27 marzo 1996) dai terroristi appartenenti ad una cellula del Gruppo islamico armato e trovati uccisi il 30 maggio di quell’anno. I martiri di Tibhirine per molti aspetti sono un’icona del martirio del nostro tempo. Agli occhi del mondo appaiono come pazzi: hanno sfidato la morte (perdendo), pur di restare – loro, occidentali, nel mirino degli estremisti islamici – in una terra dove, peraltro, la loro presenza non ha portato a conversioni di massa o all’edificazione di chissà quale Chiesa. Eppure, la loro scelta di rimanere in Algeria, nonostante il crescente clima di terrore e l’assassinio di numerosi preti e religiosi, è stata un segno forte, di grande qualità evangelica. La consapevolezza di andare incontro alla morte, acconsentendo senza riserve, e l’offerta della vita, perdonando agli aggressori, sono testimoniate dal bellissimo testamento spirituale del priore e da altri testi dei suoi confratelli: autentici tesori di spiritualità del XX secolo.
Gerolamo Fazzini