C’è un momento in cui una madre comprende il miracolo in cui è stata coinvolta mettendo al mondo il proprio figlio. Certo, ogni mamma ha il proprio, ma per tante e tante mamme, una volta superata la gravidanza (che oggigiorno significa per lo più superare psicologicamente indenni ogni controllo ecografico), sopravvissuta alla nascita (che se va bene è vaginale, se va meno bene è cesareo, ma comunque riaversi non è una passeggiata), dribblati suggerimenti ignobili e inascoltabili di zie, donne delle pulizie, mamme che non hanno allattato e per le quali un bambino coccolato è viziato, pediatri fin de siècle ancora legati a doppie pesate, aggiunte di formula e nanna a orari, e via e via, giunge quel momento. È un momento durante il quale il neonato, che già ha superato il sorriso endogeno (quello che mostra quando si sente bene) e superato il sorriso esogeno (quello che fa quando copia l’espressione del volto di chi lo guarda), ha raggiunto la fase del sorriso sociale (vero e proprio linguaggio comunicativo). Una delle prime persone alla quale il neonato riserva il sorriso (tutti e tre, se ben ci pensiamo), è mamma. E mamma è il suo mondo. Il bimbo è lì che mangia beato, tra le braccia di mamma, quando accade un miracolo. L’ennesimo, da quando ella ha scoperto la gravidanza. Il bambino smette di poppare e la guarda negli occhi. Se mamma è stata accorta e si è fidata poco dei suggerimenti da ‘pedagogia nera’, il bambino non teme di smettere di poppare e staccarsi da lei qualche secondo: è sereno, quasi sazio e rilassato. Se fosse uno di quei bambini che viene lasciato piangere, infatti, sarebbe trafelato, ansioso, chiazzato in volto per il lungo piangere (vedasi indicazioni di autori da annoverare nella cosiddetta ‘pedagogia nera’ sovracitata). Lei è rilassata anche se ha due o tre altri bambini intorno che chiedono la merenda o le propinano pasti di pastina cruda e pongo. Il neonato apparentemente pare non porgere attenzione ai fratelli maggiori che urlano, cantano e attirano l’attenzione. I suoi occhi sono per lei. Per Mamma. Per la SUA mamma. Incontra lo sguardo di lei e, magicamente, sorride.
La mamma vive quel momento di grazia, effettivamente come una Grazia. Quella scintilla d’amore nutrirà la relazione che, da quel momento, si andrà a creare. Gli sguardi, i sorrisi, le prime sillabe e poi il fatidico momento: “ma-ma-ma” smetterà di essere un insieme grossolano di lettere e diverrà “Mamma”. Mamma è la parola che un bambino pronuncia di più al mondo. Persino i vecchietti, nei loro sogni, dicono “Mamma”. Una delle ultime attenzioni al mondo terreno che Gesù, sofferente e agonizzante, pronuncia, sono per sua madre. La mamma è lei. Tutti noi cerchiamo mamma. Ogni figlio cerca mamma. Chi cresce senza mamma, fa fatica.
Ho avuto diverse pazienti che avevano optato d’interrompere la gravidanza, prima di accogliere i figli successivi. Le motivazioni erano più o meno sempre le medesime: storie sbagliate con uomini sbagliati. Oggigiorno può capitare ed è vero ciò che si sente dire da operatrici sanitarie riguardo alle donne che non portano con sé segni apparenti di sofferenza per aver abortito. Tuttavia, una volta scelto di portare avanti la gravidanza, lottato per partorire al meglio, allattato superando ostacoli piccoli o grandi, arrivava la riflessione. E non in un momento qualsiasi. In quel momento in cui il neonato sorride a lei, alla sua mamma.
Lì, se pur mantenendo apparente serenità, nascevano spontanee le domande. E una, quella che tutte effettuano, è: perché? “Perché quando ho chiesto di abortire nessuno me lo ha detto, che quello è un figlio che mi avrebbe sorriso?”
E poi: “Perché ho acconsentito al fatto che quell’uomo mi costringesse (direttamente o indirettamente, ndr) ad abortire?” E, per ultima la più onesta: “Perché ci sono andata a letto?”.
Ecco, questa credo che sia LA domanda.
Personalmente sono cresciuta potendo fare orari che desideravo. Nessuno mi ha mai messo paletti e, chi ci provava, lo ha fatto male e in modo del tutto pedagogicamente grossolano e fondamentalmente sbagliato. Non sono l’unica cresciuta così. Oggidì sono davvero tante le donne non solo cresciute così perché i genitori desiderano dare loro libertà, ma perché i genitori -talvolta separati e affaccendati in altre faccende- vogliono la medesima libertà. In più, come se non bastasse, le operatrici sanitarie (sì, sono tante donne) che le donne trovano nei consultori, non sono capaci di separare la loro vita e le loro scelte personali, dalla loro professione. Anzi, pensando che ogni donna che chiede loro aiuto, abbia bisogno dell’aiuto che loro vogliono darle ed essendo spesso ideologicamente schierate, comportandosi come delle matrigne, premono perché la donna segua le loro indicazioni.
Nei consultori viene suggerita caldamente la pillola (è molto “in” l’impianto di progesterone), la pillola del giorno dopo, sicuramente ora la RU486. E, ovviamente, viene insegnata la libertà di divertirsi. Ricordo un’ostetrica che scrisse che era felice quando poteva portare ad abortire le minorenni di madri cattoliche e bigotte, perché così le figlie potevano stare tranquille che qualcuno le aiutava, mentre le madri potevano continuare tranquillamente a insegnare la castità alle figlie. Torniamo alla domanda: perché le donne (adulte) si concedono a uomini che sanno già non essere le persone “giuste”? Sì, perché sono libere, è vero. Ma che libertà è, mi si perdoni la testardaggine, concedersi a una persona della quale non si ha stima? Mi sono data una serie di risposte. Anzi, l’ho proprio chiesto a quelle donne. “Perché mi avevano detto che è normale fare così”, “Perché cercavo l’amore”, “Perché speravo fosse diverso”, “Perché sono stata cretina, e l’ho pagata cara”. Il fatto è uno solo: queste donne avevano il diritto di essere trattate come persone preziose, come esseri importanti la cui fiducia va conquistata, la cui mano va chiesta sudando sette camice, la cui serenità va garantita, la cui salute va preservata. E invece no. Le donne, oggetti e oramai soggetti erotici, consumano il loro corpo (malato e che diviene sterile fisicamente e spiritualmente) scambiando la responsabilità con la libertà. Le più oneste se ne rendono conto quando poi diventano madri. Quando incontrano quello sguardo pieno d’amore. E, si badi bene, non ho scritto di donne sofferenti, ma di donne sufficientemente serene per ammettere l’errore, per ragionarne “apertamente” senza drammatizzare.
“Perché nessuno mi ha detto che quel figlio mi avrebbe sorriso, un giorno?”.
Non lo so, tesoro mio, ma posso solo affermare con certezza che quelle persone che avrebbero dovuto aiutarti, non lo hanno fatto. Dicendoti “Sei libera” ti hanno, di fatto, ingabbiata.
È così che vogliamo il futuro delle donne? È così che vogliamo ridurci?
Rachele Sagramoso