Le radici marxiste di Mussolini

Nel 1978, Domenico Settembrini pubblicò “Fascismo controrivoluzione imperfetta”, un saggio che indagava le affinità ideologiche tra fascismo e comunismo. In un contesto storico in cui l’influenza del Partito Comunista Italiano (PCI) e della cultura comunista era preponderante, molti intellettuali di sinistra criticarono il libro, accusandolo di revisionismo e di riabilitazione del fascismo. Tuttavia, altri studiosi condividevano questa prospettiva. Ad esempio, il filosofo tedesco Ernst Nolte descrisse Mussolini come “il più importante marxista convertitosi al nazionalsocialismo”, evidenziando la sua profonda conoscenza del marxismo prima di abbracciare il fascismo.

In effetti, Mussolini iniziò la sua carriera politica come convinto marxista, ma le sue posizioni si evolsero nel tempo. Fondò il movimento fascista, che incorporava elementi del sindacalismo rivoluzionario, pur distanziandosi nettamente dal marxismo ortodosso. La sua formazione ideologica fu arricchita da influenze diverse, dalle esperienze paterne all’impronta rivoluzionaria anarcoide del padre, dalle collaborazioni con la stampa socialista all’esperienza trentina, fino alla dirigenza di partito a Forlì. Il sindacalismo rivoluzionario, ispirato da Georges Sorel, esercitò un’influenza duratura su Mussolini, dalla militanza socialista all’interventismo e alle stesse origini del fascismo.

Mussolini non aderì mai pienamente alle organizzazioni sindacaliste, ma condivideva con esse posizioni contrarie al riformismo, come la contestazione del parlamentarismo, che considerava una resa all’ordine borghese. Promuoveva l’azione diretta tramite lo sciopero generale rivoluzionario, espressione del suo desiderio di azione e movimento, influenzato anche dall’antico anarchismo. Inoltre, Mussolini riteneva l’“ideale” (il “mito” soreliano) una forza fondamentale per mobilitare le masse.

Non mancarono influenze esterne al socialismo, ma anch’esse orientate al rinnovamento morale della società italiana. Un esempio fu “La Voce” di Giuseppe Prezzolini, che, insieme alle lezioni di Pareto, contribuì alla formazione della sua concezione elitista della lotta politica e sociale. Mussolini fu inoltre influenzato da Marx, che il padre gli leggeva sin da giovane e che riscoprì in seguito, attraverso autori come Karl Kautsky, Rosa Luxemburg e Antonio Labriola.

Il suo marxismo, tuttavia, non era ortodosso. Pur mutuando da Marx la lotta di classe, il determinismo economico e la visione della “catastrofe” che avrebbe segnato il crollo del capitalismo, Mussolini considerava il ruolo dell’élite essenziale per guidare le masse, una concezione distante dal materialismo di Marx. Piuttosto, in lui si rifletteva un attivismo e un volontarismo tipici dell’epoca. Un altro elemento significativo fu la scoperta di Nietzsche, con il suo superomismo che indicava la via per superare l’ordine morale borghese.

Mussolini, d’altra parte, fu criticato da socialisti avversari per non essere mai stato un vero marxista. La storiografia su di lui è divisa tra chi lo ritiene estraneo al marxismo, come Arfè e De Felice, e chi lo considera un momento della storia del socialismo marxista italiano, come Galli. Settembrini, pur essendo criticato dai comunisti e da De Felice, che lo accusava di vedere Mussolini come un “marxista d’accatto”, sosteneva che pochi politici dell’epoca conoscessero Marx come lui.

De Felice, a sua volta, affermò che comunismo e fascismo condividevano, in un certo senso, lo stesso “codice genetico”, poiché entrambi erano figli della Rivoluzione Francese. Questa affermazione, oggi considerata una verità consolidata, fu all’epoca una tesi molto controversa per la sinistra.

Mussolini stesso, nel 1921, dichiarò: «Conosco i comunisti. Li conosco bene perché parte di loro sono miei figli spirituali». Gramsci, prima della sua svolta dall’interventismo, lo chiamava “nostro capo”. Mussolini, infatti, era un politico pragmatico che, per arrivare al potere, fece i necessari compromessi con la monarchia, il capitale e la Chiesa, ma rifiutava il fascismo conservatore che aveva creato. Non voleva diventare un Franco, ma sognava di essere un Lenin. Affermava, ad esempio, che «il corporativismo, se è serio, è socialismo» e cercava di formare l'”uomo nuovo” nella gioventù. Molti giovani fascisti, che credevano sinceramente in questa visione, spesso provenienti dal combattentismo repubblichino, finirono per aderire al PCI.

Uno dei più coerenti, Camillo Pelizzi, riconosceva a Mussolini un merito inquietante: «aver capito che per cambiare il mondo ci vogliono milioni di morti», un sogno totalitario simile a quello di Lenin.

Emilio Gentile sottolineò che Mussolini teorizzò fin dall’inizio il primato del partito come organizzazione di rivoluzionari, con l’obiettivo di formare una coscienza rivoluzionaria nelle masse proletarie. Mussolini seguiva anche le riviste marxiste e l’esperimento collettivista di Lenin in URSS, consolidando la visione di un fascismo rivoluzionario, anticapitalista e antiborghese, in continuità con la tradizione comunista.

La cultura politica italiana, sia fascista che comunista, è stata per lungo tempo rivoluzionaria, un’eredità non ancora superata. Questa visione rivoluzionaria, seppur diversa nelle sue manifestazioni, ha caratterizzato profondamente il panorama politico del paese. Un esempio di come questa continuità si è espressa è la Spagna, che, pur avendo vissuto una guerra civile più sanguinosa e un terrorismo basco più grave di quello delle Brigate Rosse, è riuscita a diventare una democrazia stabile. La cultura politica italiana, a differenza di quella di altri paesi, è stata sempre in opposizione rispetto al liberalismo e al capitalismo. Lo dimostrano anche le lettere di Norberto Bobbio, che, pur essendo considerato un “guru” del liberalismo progressista e un simbolo di antifascismo moralistico, scriveva a Mussolini, rivelando un atteggiamento opportunistico.

Bobbio osservava che «per decenni, i missini hanno esibito come merito il fatto di aver combattuto i comunisti. Quanto al PCI, si è identificato nel merito di aver ‘vinto il fascismo’ inteso come guardia armata del Capitale, e poi la DC ‘borghese’». Con questa riflessione, Bobbio metteva in luce un punto cruciale: nessuno dei due schieramenti principali, fascista e comunista, ha mai rivendicato di aver lottato per il pluralismo. Eppure, la DC rappresentava anch’essa una parte rilevante della scena politica italiana.

Anche nella DC, infatti, c’era un forte elemento statalista e antiborghese. Quando la “Balena Bianca” si dissolse, la sinistra DC rivelò la sua avversione al liberalismo, all’alternanza e al pluralismo. Un esempio di questa tensione è visibile anche nei movimenti antiglobalizzazione, che riprendono e rielaborano alcune di queste antiche istanze. Togliatti, in particolare, aveva saputo incanalare nel suo PCI il sovversivismo che caratterizzava la cultura politica italiana, una cultura che nutriva anche il fascismo. Togliatti stesso, infatti, parlava dei fascisti come «fratelli in camicia nera» e considerava il “sovversivo” una figura positiva, il rivoluzionario che combatte contro l’oppressione. Questo sovversivismo italiano riemerse nel 1968 e continua a essere visibile in alcune frange, anche oggi, nei movimenti antiglobal.

Togliatti aveva saputo sfruttare il mito sovietico in maniera così efficace che per milioni di italiani il comunismo divenne una fede, un surrogato della religione cattolica. Questo vuoto di senso che caratterizza la sinistra italiana, come sottolineato da alcuni osservatori, ha portato alla caduta della “religione” politica, sostituita da una sorta di culto statalista e rivoluzionario.

Infine, uno degli aspetti più difficili da affrontare nella politica italiana è il rifiuto di riconoscere una comune radice storica che lega fascismo e comunismo in una sorta di identità ideologica. Nessuno, né i postfascisti né i cattolici, vuole ammettere che esiste un elemento comune, tipicamente italiano, che li lega al fascismo rivoluzionario e marxista di Mussolini. Questo rifiuto di riconoscere l’identità comune genera conflitti e ostacola l’alternanza politica nel paese. Come sottolineato da alcuni critici, è questo che «rende difficile l’alternanza, in Italia».

Il marxismo fu una componente essenziale del DNA politico di Mussolini, così come di numerosi altri dittatori nel mondo. La visione marxista della libertà, infatti, non la concepiva come un diritto individuale e astratto, ma come una condizione sociale e collettiva, legata alla liberazione dalle strutture di oppressione, come il capitalismo. Per Marx, la libertà autentica non era quella che si realizzava nella pura autonomia individuale, come inteso da alcune correnti liberali, ma nel superamento delle condizioni di sfruttamento e disuguaglianza derivanti dalla proprietà privata dei mezzi di produzione. Ecco perché il marxismo è stato alla base di numerose dittature e regimi privi di libertà, che hanno negato diritti e futuro a milioni di persone, generando sistemi politici che, pur dichiarandosi emancipatori, si sono rivelati oppressivi e autoritari.

Paolo Botti

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