Serve educazione per ridurre la criminalità

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Così parlava Franco Roberti, Procuratore nazionale antimafia e anti terrorismo, nell’audizione del 16 settembre 2015 alla Camera dei deputati:
[Quella della criminalità] è un’emergenza presunta che ci trasciniamo da secoli, senza mai guardare in faccia la realtà, cioè che le organizzazioni mafiose, camorristiche e ’ndranghetiste sono innanzitutto un fenomeno sociale e poi un fenomeno criminale.

Un fenomeno sociale che interviene drammaticamente sulla popolazione più giovane.
[…] la camorra, le mafie fanno affari con i ricchi senza scrupoli, e reclutano nelle sacche di disperazione, di emarginazione, di rassegnazione la manovalanza criminale, quella che domina Scampia. Mi avete chiesto, presidente, dei minorenni. I minorenni a Napoli sono stati sempre utilizzati dalla camorra. Se oggi hanno preso più piede è perché i maggiorenni sono in difficoltà sotto i colpi dell’azione investigativa e giudiziaria, molti sono al 41-bis. I minorenni sono una componente essenziale. A Napoli li chiamano «muschilli». Sicuramente ne avrete sentito parlare: i giovani, i «muschilli», quelli che fanno i servizi per gli spacciatori di droga, quelli che fanno le vedette a Scampia, quelli che fanno gli omicidi. Sono minorenni.

Una politica di intervento contro la dispersione scolastica deve tenere conto della dimensione, della forma e delle diverse modalità di affiliazione dei minori alle organizzazioni criminali. Oltre la reale affiliazione occorre farsi carico di un altro aspetto, non marginale:
il vasto fenomeno di quei bambini e ragazzi che pur non essendo necessariamente affiliati alle organizzazioni vivono una pericolosa e a volte fragile contiguità con gli ambienti mafiosi, sia perché intrattengono rapporti di amicizia con soggetti organici, sia perché vi è in loro una sorta di adesione immaginaria e simbolica che li rende pronti a mettersi al servizio.
Sono da tempo presenti – soprattutto nelle aree di massima crisi delle città del Mezzogiorno – sorprendenti esperienze di attivazione tra scuola e reti educative extra-scolastiche, capaci di creare e manutenere nel tempo comunità educanti solide, che si stanno mostrando capaci di contrastare il fenomeno non solo del fallimento formativo ma anche del rischio di caduta nelle maglie della criminalità organizzata e non. La raccolta, insieme ai protagonisti – insegnanti, educatori, decisori locali e anche ragazzi e famiglie – di queste esperienze e pratiche, in forma partecipata, può essere parte costituente della creazione di vere e proprie aree di educazione prioritaria.

Oggi queste evidenze, denunce e promettenti esperienze di “pedagogia del riscatto” trovano una prima risposta istituzionale nell’articolo 11 del decreto Sud che – insieme alle azioni di alcuni bandi dei PON MIUR e a misure attuative di PON del Ministero dell’Interno, in particolare relative a quartieri di grande concentrazione della criminalità minorile – correlano povertà educativa minorile e rischi, in contesti ben determinati di criminalità e mostrano una nuova attenzione del decisore pubblico in generale che, in accordo con il MIUR, riconosce la necessità di azioni educative flessibili, concordate entro comunità educanti molto larghe e ad alta intensità preventiva in aree di particolare gravità.

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