«Presto, venga con me» Dicembre 1856. L’aria è fredda perché è già scesa la notte. Don Bosco, nel suo ufficio, sta rispondendo alle lettere arrivate in giornata, di benefattori, di gente che chiede preghiere, di ragazzi che sono stati suoi amici all’Oratorio e vogliono continuare a parlare con lui. Qualcuno bussa alla porta. – Avanti, chi è? – Sono io – dice Domenico Savio entrando rapido. Ha il volto serio e pensieroso –. Presto, venga con me. C’è una cosa importante da fare. Faccia presto, Don Bosco, faccia presto. Don Bosco esita. Ma guardando Domenico vede che il suo volto, di solito così sereno, è molto serio. Anche le sue parole sono decise come un comando.
Don Bosco («avendo già provato altre volte l’importanza di questi inviti», scrive) si alza, prende il cappello e lo segue. Domenico scende velocemente le scale. Scrive Don Bosco: «Lo seguo. Esce di casa, passa per una via, poi un’altra, ed un’altra ancora, non si arresta né fa parola; prende infine un’altra via, io l’accompagno di porta in porta, finché si ferma. Sale una scala, raggiunge il terzo piano e suona una forte scampanellata. – È qua che deve entrare – mi dice. E subito se ne va». La porta si apre. Si affaccia una donna scarmigliata. Vede Don Bosco e alza le braccia al cielo: – È il Signore che la manda. Presto, presto, altrimenti non fa più in tempo. Mio marito ha avuto la disgrazia tanti anni fa di abbandonare la fede e di iscriversi a una setta anti-cristiana. Adesso sta morendo, e chiede per pietà di potersi confessare, perché ha paura di presentarsi al tribunale di Dio. Don Bosco si reca al letto dell’ammalato, e trova un pover’uomo spaventato e sull’orlo della disperazione. Lo confessa. Gli dà l’assoluzione a nome di Dio. Poche ore dopo quell’uomo muore.
Il giorno dopo, Don Bosco è impressionato da ciò che è accaduto. Come ha potuto sapere quel ragazzo di 14 anni di quel malato e della sua urgenza di mettersi in pace con Dio? Avvicina Domenico in un momento in cui nessuno li ascolta. – Ieri sera, quando sei venuto a chiamarmi, chi ti aveva parlato di quella povera persona? Allora succede una cosa che Don Bosco non si aspettava. Domenico lo guarda con aria mesta e si mette a piangere. «Non ho più osato fargli altre domande» scrive. Don Bosco capisce che nel suo Oratorio c’è un ragazzo a cui Dio parla.
La stufa di Don Cugliero
L’incontro di Don Bosco con Domenico Savio era stato provocato (oltre che dal Signore) da una grossa stufa: una di quelle stufe di campagna che ingoiano legna e in cambio diffondono un calore onesto e buono. Don Giuseppe Cugliero era l’insegnante della scuola elementare di Mondonio. Domenico, da Morialdo, era arrivato in quel paese con la sua famiglia nel febbraio 1853, e si era subito iscritto alla scuola per finire le elementari. All’inizio dell’inverno 1853-1854, Don Cugliero aveva detto ai suoi trenta scolaretti: – Venire a scuola al freddo è impossibile. Quindi d’ora innanzi ogni mattina, porterete un pezzo di legno. Li metteremo nella stufa, e così staremo al caldo fino a mezzogiorno. Una mattina del febbraio 1854 nevicava forte. Due alunni arrivarono senza il pezzo di legno. Don Cugliero non c’era ancora, e uno osò dire: – E voi, perché non avete portato la legna? Quei due ridacchiarono, parlottarono tra loro, e uscirono. Pigiarono della neve fino a farne due grosse pallottole, poi rientrarono portandole sulle braccia. Dissero: – Ecco la nostra legna! Aprirono il coperchio della stufa e buttarono dentro la neve e se la ridevano, mentre quasi tutti gli altri guardavano in silenzio. La stufa fumò, lasciò filtrare un po’ d’acqua e si spense. Quando arrivò, Don Cugliero domandò inviperito: – Chi è stato? Nessuno fiatò, perché i due colpevoli avrebbero picchiato chi parlava. Alla ripetizione della domanda, si alzarono proprio quei due e dissero: – È stato Domenico. Domenico, si alzò stupito. Si guardò intorno come per dire: «Ditegli che non è vero». Ma nessuno alzò gli occhi dai libri. Tanti piccoli vigliacchi.
Don Cugliero disse stupito a Domenico: – Proprio tu! Non me lo sarei mai aspettato. E adesso prendi il libro e vieni a inginocchiarti in mezzo alla classe, vicino alla stufa. Sentirai come si sta bene accanto a una stufa spenta! Domenico s’inginocchiò dove diceva il maestro e la lezione fu chiusa prima del solito, perché faceva troppo freddo nella scuola. Uscendo dalla scuola, però, qualcuno fu preso dal rimorso, e sussurrò a Don Cugliero: – Guardi che non è stato Domenico. Sono stati quei due là. Don Cugliero cadde dalle nuvole. Richiamò a gran voce Domenico, che era appena partito con i suoi libri. – Ma perché sei stato zitto? Così ho compiuto un’ingiustizia davanti a tutta la classe. Bastava che mi dicessi: «Non sono stato io!». Domenico rispose tranquillo: – Anche il Signore è stato calunniato ingiustamente. E non si è mica ribellato. Don Cugliero rimase così colpito da quelle parole, che pensò tra sé: «Questo è un ragazzo buono sul serio. Gli farò un grosso regalo». Alcuni mesi dopo prese la carrozza, e si recò a Torino, dove abitava il suo compagno di seminario Don Giovanni Bosco. Lo trovò in un cortile affollato da centinaia di ragazzi. – Tu di ragazzi ne hai davvero più di me – sorrise Don Cugliero guardando quella splendida baraonda –. Ma io ne ho uno che vale tutti i tuoi messi in fila. E sono venuto per regalarlo al tuo Oratorio. Si chiama Domenico Savio, e noi lo chiamiamo «Minot». Se sai tirarlo su come si deve, ne verrà fuori un sacerdote di prim’ordine! – Anche tra questi che vedi correre e giocare come diavoletti scatenati, ci sono dei veri angeli, sai? Comunque, per me va bene. Io verrò ai Becchi per la festa del Rosario. Fammi incontrare questo tuo piccolo campione con suo padre.
Il figlio della sarta
2 ottobre 1854. Nel cortile, davanti alla sua casetta dei Becchi, Don Bosco vide arrivare Minot con suo papà. Quell’incontro (uno dei più importanti della sua vita) Don Bosco lo narrò come se l’avesse filmato con una cinepresa. «Era… di buon mattino, allorché vedo un fanciullo accompagnato da suo padre che si avvicina per parlarmi. Il volto era ridente, l’aria rispettosa. Conobbi in quel giovane un animo tutto secondo lo spirito del Signore». Al termine dell’incontro, Don Bosco, sapendo che la mamma di Domenico era sarta, disse: Mi pare che in te ci sia della buona stoffa. – A che può servire questa stoffa? – A fare un bell’abito da regalare al Signore. – Dunque io sono la stoffa, ella ne sia il sarto; dunque mi prenda con lei e farà un bell’abito per il Signore.
5 parole misteriose
Domenico e suo padre arrivarono a Torino il 29 ottobre 1854. Scesero all’Oratorio attraversando il quartiere di Borgo Dora. Entrarono in un cortile dove giocavano molti ragazzi, e salirono all’ufficio di Don Bosco. Domenico notò subito un grosso cartello alla parete, con cinque parole misteriose: Da mihi animas, coetera tolle. Quando suo padre ripartì, superata la prima esitazione, Domenico domandò a Don Bosco cosa significassero quelle parole. E Don Bosco, sorridendo, lo aiutò a fare la sua prima traduzione dal latino: «Dammi le anime e prenditi tutto il resto». Era la parola d’ordine che Don Bosco aveva preso diventando sacerdote. «Quand’ebbe capito, Domenico – è Don Bosco che lo racconta – si fece per un istante pensieroso. Poi disse: “Ho compreso. Qui non si cerca denaro. Qui si cercano anime per il Signore. Spero che anche la mia anima sarà del Signore”».
Un biglietto per la Madonna
Alla domenica e nel pomeriggio dei giorni feriali, i prati dell’Oratorio erano invasi da centinaia di ragazzi di ogni genere: venivano a giocare, a imparare qualcosa, a stare con Don Bosco, pronti a divorare la pagnotta della merenda e magari a scappare quando era l’ora di andare in chiesa. Tra quei ragazzi, sovente sporchi e maleducati, Domenico fu subito un amico. Ricordava Giovanni Bonetti: «Faceva il catechismo ai più piccoli nella chiesa dell’Oratorio, e tutti lo ascoltavano volentieri». 8 dicembre 1854, una giornata di grande entusiasmo: il Papa proclama il dogma dell’Immacolata Concezione di Maria. Domenico, nel pomeriggio di quel giorno, andò in chiesa, si inginocchiò all’altare della Madonna e si consacrò a Lei con queste parole che aveva scritto sopra un biglietto: «Maria, vi dono il mio cuore, fate che sia sempre vostro. Gesù e Maria, siate voi sempre gli amici miei; ma per pietà fatemi morire piuttosto che mi accada la disgrazia di commettere un solo peccato».
La ricetta della santità
Il 24 giugno all’Oratorio si faceva festa: era l’onomastico di Don Bosco. Ognuno cercava di manifestargli il suo affetto, e Don Bosco ricambiava con cuore grande. La sera del 23 giugno 1855 disse ai suoi ragazzi: «Domani volete farmi la festa, e io vi ringrazio. Da parte mia, voglio farvi il regalo che più desiderate. Perciò ognuno prenda un biglietto e vi scriva sopra il regalo che desidera. Non sono ricco, ma se non mi chiederete il Palazzo Reale, farò di tutto per accontentarvi». Quando lesse i biglietti, trovò domande serie e bizzarre. Chi gli chiedeva «cento chili di torrone per averne per tutto l’anno», chi un cucciolo «al posto di quello che ho lasciato a casa». Giovanni Roda, un amico di Domenico, gli chiese «una tromba come quella dei bersaglieri, perché voglio entrare nella banda musicale». Sul biglietto di Domenico trovò 5 parole: «Mi aiuti a farmi santo». Don Bosco chiamò Domenico e gli disse: «Quando tua mamma fa una torta, usa una ricetta che indica i vari ingredienti da mescolare: lo zucchero, la farina, le uova, il lievito… Anche per farsi santi ci vuole una ricetta, e io te la voglio regalare. È formata da tre ingredienti che bisogna mescolare insieme. Primo: allegria. Ciò che ti turba e ti toglie la pace non piace al Signore. Caccialo via. Secondo: i tuoi doveri di studio e di preghiera. Attenzione a scuola, impegno nello studio, pregare volentieri quando sei invitato a farlo. Terzo: far del bene agli altri. Aiuta i tuoi compagni quando ne hanno bisogno, anche se ti costa un po’ di disturbo e di fatica. La ricetta della santità è tutta qui». Domenico ci pensò su. I primi due «ingredienti», gli pareva di averli. Nel far del bene agli altri, invece, qualcosa di più poteva fare, pensare, inventare. E da quel giorno ci provò.
«Conti su di me»
Le classi, in quel tempo, non erano composte da 25 scolari, ma da 70. Era facile, per i più timidi, smarrirsi, non riuscire a seguire la lezione. Il professore ripeteva, ma non poteva ripetere dieci volte mentre gli altri si agitavano, sbuffavano. Finiva per dire: «Voi due dopo studierete con Domenico». Domenico gli aveva detto: «Se posso aiutare qualcuno, conti su di me». Poco per volta Domenico si accorse che per fare del bene, bisogna anche impedire il male, e che questo era meno simpatico e più pericoloso. Ma ci provò lo stesso. Un ragazzo aveva portato all’Oratorio un giornale con figure poco pulite, che non avrebbe guardato alla presenza di sua madre. Gli si radunarono intorno tre o quattro. Guardavano, ridacchiavano. Domenico si avvicinò anche lui, vide il giornale e divenne triste. Lo prese di scatto dalle mani del proprietario e lo strappò. Il ragazzo si mise a protestare, ma protestò anche Domenico, a voce più alta: «Ma bravo! Don Bosco ti tiene in casa sua, e tu gli porti in casa questa roba! I giornali che offendono il Signore non devono entrare qui dentro».
Le litanie del carrettiere
Nel maggio del 1855 Torino formicolava di eccitazione. Cavour aveva deciso che il Piemonte mandasse un «corpo di spedizione militare» contro la Russia, a fianco di Francesi e Inglesi. Si radunavano in Piazza Castello e sfilavano per via Dora Grossa i battaglioni in partenza per la Crimea. Anche i ragazzi dell’Oratorio andarono a vedere la sfilata. Domenico vide passare di corsa i bersaglieri con le piume al vento, tra il grandinare degli applausi. Vide rotolare sul selciato i cannoni affiancati dagli artiglieri in uniforme campale. Ma vide anche altro. Il traffico da via Dora Grossa era stato deviato nelle strette vie laterali. Un cavallo che tirava un carro con cestoni di mele, era scivolato sulle pietre, e cadendo aveva rovesciato il carro. Le mele rosse e gialle rotolavano tra i piedi dei passanti. Il carrettiere, imbestialito, percuoteva il cavallo con il manico della frusta, e bestemmiava. Il cavallo si tirò su, le ceste di mele furono rimesse in ordine, ma il carrettiere continuava la sua litania di bestemmie. Allora Domenico gli andò vicino: «Scusi, mi potrebbe dire dov’è l’Oratorio di Don Bosco?». Davanti a quella faccetta pulita, l’omone smise di bestemmiare, e rispose: «Non conosco nessun Oratorio». A Domenico il cuore batteva forte mentre disse: «Allora, potreste farmi un altro favore?». «Sicuro. Vuoi due mele?». «No. Vorrei che quando siete arrabbiato non diceste bestemmie». L’omone lo guardò sorpreso, poi scoppiò a ridere: «Bravo! Hai ragione. Quando mi arrabbio sono più bestia del mio cavallo. Devo mordermi la lingua».
Venti passi e le pietre
Un giorno due compagni di scuola di Domenico si scambiarono titoli pesanti, si pestarono. Poi uno gridò: «Ti sfido a duello!». In quel tempo, il duello era una triste abitudine tra i militari. Una grave offesa veniva «lavata» con la sciabola, o con la pistola a venti passi. I ragazzi, affascinati come sempre dalla violenza, li imitavano con il «duello delle pietre». Anche quella volta fu così. In un prato vicino alla scuola, due amici misurarono venti passi, tracciarono due cerchi, collocarono 5 pietre in ognuno dei cerchi. I duellanti – si prepararono al lancio. Domenico passava di lì per tornare all’Oratorio, vide una piccola folla di spettatori e capì. Si trattava di una faccenda pericolosa: una pietra ben mirata poteva spaccare una testa. L’ Oratorio era lontano. Non sapeva cosa fare. Quei due erano suoi amici, ma come farli smettere quella sfida stupida e pericolosa? Entrò nello spazio lasciato libero per i duellanti, si tolse dal collo il piccolo Crocifisso che portava sempre, si avvicinò ai due sfidanti. «Guardate il Crocifisso! – ordinò con fermezza –. E adesso ripetete queste parole: “Gesù è morto perdonando i suoi crocifissori. Io invece non voglio perdonare, voglio fare una tremenda vendetta!”». Erano due bravi ragazzi, e rimasero senza fiato. Allora Domenico con voce triste continuò: «Perché volete farvi del male? Perché volete dare un dispiacere al Signore e alle vostre famiglie? Gesù ha perdonato chi lo uccideva, e voi non siete capaci di perdonarvi un insulto, uno schiaffo dato in un momento di rabbia». Il duello non si fece. Al «processo di beatificazione», cinque testimoni hanno giurato di aver assistito a quella scena drammatica.
Il capolavoro di Domenico
All’inizio del 1856 i ragazzi che vivevano giorno e notte all’Oratorio erano 153: 63 studenti e 90 giovani lavoratori. Nella primavera di quell’anno, Domenico ebbe un’idea. Perché non unirsi, tutti i giovani più volenterosi, in una «società segreta» per diventare un gruppo compatto di piccoli apostoli nella massa degli altri? Ne parlò con alcuni. L’idea piacque. Si decise di chiamare la società «Compagnia dell’Immacolata». Don Bosco l’approvò. Nella prima «adunanza» si decise chi invitare a iscriversi: pochi, fidati, capaci di tenere il segreto. I soci si impegnavano a diventare migliori con l’aiuto della Madonna e di Gesù; ad aiutare Don Bosco diventando con prudenza e delicatezza dei piccoli apostoli tra i compagni; a diffondere la gioia e la serenità attorno a sé. La Compagnia fu inaugurata l’8 giugno 1856, davanti all’altare della Madonna nella chiesa di San Francesco. Don Bosco ricorda che l’entrata in azione della Compagnia migliorò decisamente la vita dell’Oratorio. La sua attività principale fu quella di «curare i clienti».
I ragazzi indisciplinati, dallo schiaffo e dall’insulto facile, venivano assegnati ai singoli soci perché funzionassero nei loro riguardi come «angeli custodi». Una seconda categoria di «clienti» che la Compagnia adottò furono i nuovi arrivati. Venivano aiutati a trascorrere in allegria i primi giorni, quando non conoscevano nessuno, non sapevano giocare, parlavano solo il dialetto del loro paese, e avevano tanta nostalgia. Con la «Compagnia dell’Immacolata», Domenico aveva realizzato il suo capolavoro. Gli rimanevano da vivere soltanto 9 mesi, ma la sua «Compagnia» sarebbe durata più di cent’anni. In tutte le opere fondate dai Salesiani sarebbe diventata un manipolo di ragazzi impegnati e di vocazioni salesiane. Dio premiò Domenico anche con delle grazie speciali. Un giorno tutti notarono la sua assenza a scuola e all’ora del pranzo. Anche Don Bosco si mise a cercarlo. Entrato in chiesa, lo trovò davanti al tabernacolo, in estasi. Una mano appoggiata al leggìo, l’altra sul petto, gli occhi rivolti al tabernacolo. Don Bosco lo chiamò, lo scosse e, finalmente, Domenico lo guardò e gli chiese: – È già finita la Messa? – Guarda che sono le due del pomeriggio! Quell’attimo, per Domenico era durato sette ore!
«Cosa posso fare per il Signore?»
La salute di Domenico deteriorò rapidamente. Domenico riprese l’anno scolastico regolare nell’ottobre 1856. Ma presto comparve una febbre ostinata, e uno sfinimento di forze che gli faceva passare frequenti giornate nel lettuccio dell’infermeria. Nel febbraio del 1857 la tosse cominciò a tormentare Domenico, e Don Bosco decise di mandarlo dai suoi. Domenico lo fissò con quegli occhi grandi e scosse la testa: – Io me ne vado e non tornerò più. Don Bosco, è l’ultima volta che possiamo parlarci. Mi dica: cosa posso fare per il Signore? – Offrigli le tue sofferenze. – E cos’altro ancora? – Offrigli anche la tua vita. Il tono di Don Bosco si era fatto grave: sapeva che quell’offerta sarebbe stata accettata. Il saluto più accorato, Domenico lo diede agli amici della «Compagnia». Poi arrivò papà, e insieme si avviarono verso Porta Palazzo, dove partiva la carrozza per Mondonio. All’angolo della via agitò ancora la mano a salutare il suo Oratorio, gli amici. Don Bosco rimase a guardare, con un dolore profondo, quel ragazzo che partiva. Era stato il suo alunno migliore, il santino che la Madonna aveva regalato all’Oratorio per tre anni. Il sangue dieci volte A Mondonio, il medico diagnosticò «infiammazione polmonare» (= polmonite). Ricorse al rimedio allora universale: levare sangue dalle vene. Per dieci volte, da quel corpo fragile, la lancetta del chirurgo fece sgorgare sangue. Domenico fu letteralmente dissanguato. Si spense quasi all’improvviso il 9 marzo 1857. Don Bosco scrive che morì dicendo: «Che bella cosa io vedo». La signora Anastasia Molino, vicina di casa dei Savio, afferma: «Ho veduto sovente il giovanetto durante la sua ultima malattia. Negli ultimi giorni, aggravandosi il male e vedendo sua madre afflitta, egli le faceva coraggio dicendole: “Mamma, non piangere, io vado in Paradiso”. Diceva ancora di vedere la Madonna e i Santi. Io fui presente agli ultimi momenti, e ricordo che mentre un buon vecchio gli raccomandava l’anima, egli lo fissava e accompagnava col cuore le sue preghiere. Erano pure presenti suo padre e sua madre. Spirò placidamente». Don Bosco scrisse e ristampò tante volte la vita di Domenico, e ogni volta che rileggeva quelle pagine non riusciva a frenare le lacrime. Papa Pio XII lo dichiarò «Santo» il 12 giugno 1954. Il primo santo di 15 anni. Teresio Bosco SDB