Madre Teresa e il condannato a morte

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Noble36, CC0, via Wikimedia Commons

In una lettera di alcuni anni fa, Michael Wayne Hunter scrisse alle suore della “Mother House” di Calcutta per ricordare l’incontro che gli aveva cambiato la vita, quando nell’estate del 1987 si trovava nel carcere di San Quintino, in California, dove scontava l’ergastolo senza possibilità di libertà condizionale.

All’epoca, si trovava al terzo anno nel braccio della morte, in attesa dell’esecuzione per l’omicidio del padre, un crimine che lo aveva segnato nel profondo, non solo per la gravità dell’atto, ma per il senso di vuoto e disperazione che l’aveva portato a commetterlo. In quel periodo, schiacciato dal peso della colpa e della solitudine, ebbe modo di entrare in contatto con un gruppo di suore ispirate dall’opera di Madre Teresa di Calcutta.

Fu proprio questo incontro a rappresentare per Hunter un punto di svolta. Come lui stesso scrisse nella sua lettera, le suore gli portarono un messaggio di speranza e misericordia che lo colpì profondamente. Per la prima volta da anni, Hunter percepì che, nonostante i suoi errori, non era completamente perduto. Quelle parole, semplici ma cariche di compassione, risvegliarono in lui il desiderio di trovare un senso alla sua vita anche all’interno di quelle mura.

Nel corso del tempo, questo primo passo si trasformò in un cammino di profonda riflessione e pentimento. Hunter iniziò a scrivere, sia per elaborare il dolore e la colpa che portava con sé, sia per trasmettere ad altri detenuti il messaggio che aveva ricevuto: anche nel buio più profondo può esistere una luce. Grazie a questa trasformazione, il suo destino cambiò: la pena di morte fu commutata in ergastolo e Hunter, pur consapevole della gravità delle sue azioni, scelse di dedicare il resto della sua vita a portare conforto a chi vive situazioni di sofferenza e isolamento.

L’esperienza di Hunter fu un esempio di come un incontro – anche fugace – potesse piantare il seme di una rinascita, anche dove sembrava impossibile immaginarla. E lui, ancora oggi, continua a portare con sé il ricordo di quelle parole, ringraziando le suore per aver aperto uno spiraglio di grazia nel momento più buio della sua esistenza.

«Mi stavo mettendo le scarpe da tennis per giocare a pallacanestro», scrisse Michael (in California ci sono le camere a gas, ma anche le palestre per i morituri), «quando una guardia mi disse: meglio che non vada a giocare, Hunter. Ti perderai Madre Teresa. Viene stamane a incontrare voi detenuti».
Il vantaggio di essere un morto che cammina, ricordò Hunter, è che non devi rispettare nessuna convenzione sociale. «E chi se ne frega. Io vado a giocare. Se Madre Teresa vuol vedermi, può venire a giocare anche lei».
Un’ora dopo, finita la partita, mentre lo accompagnavano nella sua cella con altri condannati, le guardie deviarono per la stanza dei colloqui.
«Madre Teresa è rimasta qui. Vuole vedervi». La vecchietta aveva saputo di quei condannati a morte assenti all’incontro. «Li aspetto», aveva detto. E, con imbarazzo di tutti, era rimasta lì, sgranando la corona del Rosario.
«Così, al di là del vetro, ho visto quella donnina che sembrava centenaria.
Era proprio lei. Aveva occhi penetranti, che mi guardavano con incredibile vitalità e simpatia. Mi sorrise, benedisse una medaglietta e me la diede.
Ebbi solo la forza di dire: grazie, Madre. Poi dovetti lasciare il posto agli altri condannati a morte: ciascuno ebbe una medaglietta. Mi feci coraggio: me ne dà un’altra? Per mia cognata? La vecchietta sorrise, benedisse un’altra medaglia e benedì anche me. Posò per una foto con le guardie; si mise in posa con grande professionalità, si vedeva che era abituata a farsi fotografare accanto alle personalità del mondo. Prima di andarsene, ammonì le guardie: “Ciò che fate a questi uomini, lo fate a Dio”».
Per due giorni, ricordò Michael Hunter, le guardie furono umane. Lui mandò la seconda medaglietta alla cognata, la prima a sua moglie Terri («Anche lei si chiama Teresa»), che la portò ad una catenella da collo. Ma non credeva, Hunter, che quella medaglietta facesse miracoli.

Fino al 1989 – quinto anno in attesa di esecuzione – quando sua moglie disse che voleva il divorzio. «Ti voglio bene, ma non posso restare legata a un uomo che sta per morire», gli disse nella stanza dei colloqui. «Fu uno dei peggiori momenti della mia vita, ma capivo Terri. Divorziammo subito dopo il rigetto del mio appello da parte della Corte Suprema. Era la fine». Hunter chiese a Terri un favore: avere la medaglietta: «Resta tua, si capisce. La riavrai quando mi avranno liquidato. Ma mi darà forza».
A causa della medaglietta, i due ripresero a scriversi. Terri tornò a visitare Hunter ogni volta che poteva. «Mia moglie è ridiventata parte della mia vita ancor più di prima», scrisse Hunter. «Poco prima dell’esecuzione di un mio amico, Bob Harris, Madre Teresa chiese la grazia per lui. Non fu concessa. Ma sapemmo che lei non ci aveva dimenticato». La condanna di Hunter, invece, fu commutata in ergastolo.

Oggi Hunter è diventato uno scrittore impegnato contro la pena di morte, e tiene ancora al collo quella medaglietta. Scrive regolarmente dal carcere, producendo saggi, articoli e lettere in cui riflette sulla redenzione, sulla spiritualità e sulla possibilità di cambiare, anche di fronte alle conseguenze delle proprie azioni. I suoi scritti sono stati pubblicati in riviste e piattaforme impegnate nella lotta contro la pena capitale, e continuano a ispirare lettori dentro e fuori dalle mura del carcere.

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