Ortolana dei Fiumi, vedova di Favarone, avrebbe desiderato per le proprie figlie un onorato matrimonio. Per ognuna aveva preparato, nel grande palazzo di pietra del Subasio, un cassone di biancheria ricamata a punto umbro. In un altro cassone, cosparsa di pepe contro le tarme, serbava la lana più soffice, comprata nel fondaco di Pietro di Bernardone. Ma ora le figlie, ad una ad una, seguendo lo esempio di Chiara, erano uscite di casa, lasciandola sola, a guardia di tutta quell’inutile ricchezza. Chiara, Agnese e Beatrice avevano scelto tesori che la ruggine non poteva intaccare e le tarme non potevano rodere. I cassoni, nel palazzo cittadino, sembravan arche di morte, mentre, a San Damiano, l’assoluta povertà spandeva profumo di vita santa. E un giorno, anche la vedova di Favarone distribuì ai bisognosi i corredi gelosamente conservati; fece rinunzia del suo stato sociale; abbandonò il suo palazzo e a piedi nudi uscì dalla Porta. Scese per la viottola tra gli olivi, bussò al convento di San Damiano e chiese alla propria figlia di accoglierla come una figlia. Chiara divenne così la madre della propria mamma. Una madre premurosa e servizievole, ma insieme inflessibile nei riguardi della Regola. Ortolana, per quanto anziana, al confronto di Chiara sembrava una bambina impacciata.
Nel mondo aveva contratto abitudini e preconcetti che a quando a quando le riaffioravano sotto il velo. Chiara la metteva dolcemente in guardia contro il risorgente orgoglio o la rinascente ambizione di gentildonna. Annesso al convento si trovava un piccolo appezzamento di terreno. « E quel terreno – diceva la Regola – non si coltivi se non come orto per il bisogno delle suore ». Ortolana fu addetta a quel terreno. Divenne ortolana di fatto, ella che era stata nel mondo Ortolana di nome. Le sue mani aristocratiche s’indurirono di calli, il suo volto delicato s’íncósse al sole, ma tra le rughe, come tra i solchi dell’orto, anche per la vecchia signora, fiorì la letizia dell’anima finalmente in pace. A volte Ortolana s’inquietava per una pianticina uccisa dal gelo o per un ramo stroncato dal vento, ma Chiara la confortava a fidarsi della Provvidenza. Nell’orto si rinnovava continuamente il miracolo della creazione, e nel convento altri miracoli avvenivano, provocati dalla fede assoluta che Chiara aveva nella diretta assistenza del Signore. Un giorno già era sonata l’ora della cena e in convento non si trovava che un solo pane. La suora addetta al refettorio non si decideva a scuotere la campanella. Chiara domandò il perché di quel ritardo. – Stasera faremo digiuno – le rispose la suora – Non abbiamo che un solo pane. Non basterà neppure ai due frati che stanno fuori. – Va’ figliuola mia, – disse Chiara – e rompilo. Metà dallo ai frati e dell’altra metà fanne cinquanta pezzi quante noi siamo. – Com’è possibile sminuzzare mezzo pane in cinquanta pezzi ? – rispose – la dispensiera. – Non ne toccherebbe una mollica per una. Ma Chiara, sicura di sé, ripeté l’ordine. – Va’, figliola. mia, fa’ quello che ti ho detto, e abbi buona confidenza nella Provvidenza di Dio.
E mentre la dispensiera spezzava il pane, Chiara pregava, e il pane aumentava, diventando sufficiente alla fame delle cinquanta suore digiune. Fuor del convento, mandati da Francesco e scelti tra i più sicuri dei compagni, stavano sempre alcuni frati addetti alla questua. Frate Bentivenga era il più assiduo. S’affacciava al muro dell’orto e chiedeva se avevano bisogno di nulla. – Siamo senz’olio – gli disse un giorno Ortolana. – Preparatemi l’orciolo e mettetelo sul muro. Passerò più tardi a toglierlo. Chiara stessa pensò a preparare il recipiente, passandoci cenere e acqua bollente. Pose, con le sue mani, l’orciolo sul muro. Di lì a poco Fra Bentivenga ripassò a prender l’orciolo. Fece per toglierlo di sul muro, ma lo senti più pesante del solito. Vi guardò dentro. L’orciolo era pieno d’olio finissimo e limpido. Una fogliolina d’olivo vi galleggiava sopra, verde, sul liquido verdastro.
Fonte: I fioretti di Santa Chiara