Ti amo con amore di predilezione (dal Diario di Elisabetta Canori Mora)

Elisabetta Canori Mora
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7.1. Natale 1807

La notte del Santo Natale del 1807, da mano invisibile fui condotta in un luogo, che io non so indiziare, dove mi apparve la divina Madre con il suo santissimo figliolo Gesù bambino nelle sue braccia. Mi degnò non solo di adorarlo, ma graziosamente lo collocò sopra al mio corpo, erasi dolcemente adagiato sul suolo, e così poté la santissima Vergine collocare il suo caro Bambinello nel mio seno, non per merito proprio, ma solo per esuberanza del suo materno affetto.

Collocato che ebbe il dolce suo bene, amorosamente lo vagheggiava, tramandando dai purissimi suoi occhi dolci lacrime di consolazione; compiacevasi altamente di vedermi tanto amata dal suo divin Figliolo. Di qual sorta fossero gli affetti del mio povero cuore verso Gesù, verso Maria, io non posso ridirlo; ma, sopraffatta da veemente amore, mi confondevo altamente, riconoscendomi affatto indegna di sì eccelso favore, godevo la beata visione con esuberanza di affetto, ora volgendo gli sguardi verso Gesù, ora verso Maria, tramandavo dai miei occhi un profluvio di lacrime. L’ardente fiamma della loro carità incendiava il mio povero cuore, e dolcemente mi faceva languire di amore.

Nel mese di marzo 1808 fui condotta dallo Spirito del Signore in luogo deserto, dove passai la intera Quaresima in fervorose orazioni, digiuni e penitenze.

7.2. Come santa Teresa e santa Geltrude

Nel mese di aprile del suddetto anno 1808 fui condotta dal luogo deserto alla sponda di vastissimo mare, dove mi apparve Gesù Cristo, Signor nostro, e di propria mano mi condusse alla sponda di questo, e salir mi fece in piccolo battello.

«Prendi», mi disse, «prendi, questi sono i remi. Passar devi da questa all’altra sponda, dove troverai il Monte Santo; fino alla sommità di quello ti aspetta l’amor mio. Mostrati valorosa contro i nemici, che, con la mia grazia, di tutti riporterai la vittoria. Figlia, ti benedico. Ti aspetto al Monte, dove ti sono preparati i miei più distinti favori».

Rimirandomi con compiacenza, soggiunse: «Figlia, ti ho creata per beneficarti; vedrai quello che saprà fare l’amor mio verso di te. Ti amo con amore di predilezione, sono per favorirti non meno della mia Teresa, o della mia Geltrude».

Dette queste parole disparve, lasciando nel mio cuore i mirabili effetti della sua particolare grazia. Avvalorata dalle sue parole, invocai il suo potente aiuto e mi posi a remare. In questi remi venivano significate le virtù della fortezza e della perseveranza, perché con la fortezza dovevo vincere e superare tutti i miei nemici, e infrangere tutti gli ostacoli che mi si frapponevano per andare liberamente al mio Dio, tanto riguardo a me, quanto guardo al prossimo, disprezzando tutto generosamente per amor di Dio; la perseveranza per mantenere fedelmente tutto quello che gli avevo promesso nei santi voti e propositi, rinunzia di intelletto e di volontà, come si è già detto di sopra.

Questi remi erano molto adatti, mentre, per andare dove mi aveva additato Gesù Cristo, bisognava molto faticare, perché si andava contro acqua. Mi affaticavo quanto potevo, con la grazia di Dio, ma quando mi fui inoltrata in questo burrascoso mare, fui inseguita da una nave molto grande, dentro la quale vi era un popolo mal costumato, che viveva senza regola, senz’ ordine, ma erano dominati dalle loro passioni.

Era quella nave ripiena di demoni, che a tutto costo facevano prova di predarmi, inseguivano con la loro grande nave il mio piccolo battello. Veramente in quel momento fui sorpresa da sommo timore, per vedermi quasi sul punto di cadere nelle loro mani. Scorreva questa nave or qua or là, con tanta baldanza e sfacciataggine che si facevano contro di me invincibili, mostrandomi la loro potestà. Con somma superbia cercavano di atterrirmi, con dei brutti urli fecero prova che volontariamente mi fossi fatta cadere dalle mani i prodigiosi remi, che mi aveva consegnato Gesù Cristo, alzando ogni momento più le grida per atterrirmi. Ma buon per me che mi ricordai di quanto mi aveva detto Gesù Cristo, che con la sua grazia sarei vittoriosa dei miei nemici; il suo santissimo nome invocai in aiuto, e più che mai mi affaticavo a remare.

All’invocazione del santissimo nome di Gesù, tutti restarono annegati, e così potei con sicurezza tragittarmi dall’una all’altra sponda. Dopo aver riportato la vittoria dei miei nemici, come già dissi, prima di arrivare al Monte Santo, da vento benefico fui trasportata in una isola deserta, dove dimorai circa nove giorni; questi giorni furono consumati dalla povera anima mia in piangere i propri peccati, nell’esercizio delle sante virtù, e nel raccoglimento. Intanto lo Spirito del Signore andava disponendo l’anima mia, liberandola da molti abiti cattivi, e da molte cattive inclinazioni, per così renderla degna di salire il Sacro Monte. Era in questo tempo veramente l’anima mia guidata puramente dallo Spirito del Signore. Mentre senza indugio si faceva guidare dal suo beneplacito, senza la minima opposizione, compiacendosi nella volontà del suo amato Signore, si andava il mio spirito purificando nel santo amore, che sentiva tratto serpeggiare nel seno.

7.3. Quale appassionata amante

Passati i nove giorni, fui condotta in altra isola, dove il mio spirito, per avere maggior disposizione, si sollevava a Dio con replicati affetti di amore, si tratteneva in particolari esclamazioni di vivi affetti verso il suo amorosissimo Signore.

Rimproverando la mia ingratitudine, mi rallegrava nella sua infinita misericordia. Sopraffatto dall’amore, languiva il mio povero cuore, e lo spirito desiderava ardentemente di arrivare a salire il Santo Monte, dove speravo di arrivare a possedere il mio bene, il mio sommo amore.

Il Santo Monte era di rimpetto a quella isola dove io dimoravo, sicché i miei sguardi erano sempre colà rivolti.

Quale appassionata amante, che non altro cerca che il suo oggetto amato, così la povera anima mia, nella quiete che quivi godeva, era continuamente rivolta all’eterno suo Bene; con dolci esclamazioni e infocati sospiri desiderava il felice momento di potersi a lui avvicinare. L’ardente desiderio di poterlo possedere mi teneva le intere giornate fuori di me stessa; in questo tempo più del solito mortificavo la mia carne, con quotidiane discipline, cilizio e lunghe orazioni, perfino a fare cinque e sei ore continue di orazione, dove l’anima andava consumando il tempo della sua dimora nella suddetta isola.

Siccome l’anima ammaestrata dallo Spirito del Signore, conosceva che il tempo lungo che quivi dovevo trattenermi lo potevo con i replicati atti di virtù e con lunghe e ferventi orazioni molto abbreviare, a questa notizia, presi a mortificare più del solito il mio corpo, nonché il mio spirito, tenendolo umiliato, annientato, confuso, con meditazioni tetre ed afflittive, con continue lacrime di dolore di aver offeso il sommo Dio.

7.4. Poveri e infermi

Molto particolare fu la carità che mi donò il pietoso iddio verso i miei prossimi, mentre per sovvenirli non aveva alcun riguardo, ma a costo di ogni mia fatica e incomodo procuravo di sovvenirli, con la licenza della suocera, prendevo delle grascie che erano in casa, di ogni genere come sarebbe di vino, di carbone, di porcina, di latticini, e tutto davo, con il permesso della suddetta mia suocera, ai poveri.

Li visitavo infermi ai pubblici ospedali, facendo loro i letti, pulendo le loro teste con pettinarle, votando i loro vasi immondi, e, per mortificarmi, più volte appressavo a quelli la bocca, con somma mia ripugnanza e conati di stomaco. Ma lo spirito dava coraggio al corpo, nel patire, gli diceva: «Mira, deh, mira il Santo Monte: fino alla sommità di quello ascenderai, e ancor tu parteciperai di quel Bene immortale. Patisci con pazienza, patisci allegramente, patisci con azione di grazie. Dio sarà la nostra mercede».

Avvalorata da viva fiducia, prendevo più lena a patire, sicché senza alcun riguardo mi esercitavo in certe mortificazioni ripugnanti alla natura, come sarebbe lambire gli sputi altrui sul suolo, appressare la bocca ai vasi immondi, con somma mia ripugnanza e con conati veementi di stomaco.

7.5. Per piacere al mio amorosissimo Dio

Nell’inverno lasciavo che il mio corpo intirizzisse dal freddo, non permettendo mai di riscaldarsi; nell’estate lo lasciavo soffrire gli ardori del caldo, non permettendogli mai alcun refrigerio. Andavo ben coperta dai panni, e da questo i miei parenti prendevano motivo di schernirmi e burlarmi e trattarmi da stolta; tenevo sempre le finestre chiuse quanto più potevo, non bevevo mai fra giorno, a costo di qualunque mia pena; il venerdì mi astenevo dal bere, in memoria di quella ardentissima sete del buon Gesù, sicché dal giovedì fino al sabato al mezzogiorno non bevevo neppure una stilla d’acqua.

Le mani erano mortificate da me con colpi di disciplina di ferro; le dita le mortificavo con tenerle sotto le ginocchia; la lingua la mortificavo con lo strascinarla in terra, segnando con questa molte croci; ma particolarmente una fra le altre la facevo della lunghezza di mezza canna; mi trattenevo per lo spazio di mezzo, o tre quarti d’ora, con la fronte per terra, umiliando me stessa e adorando l’eterno Dio. Per lo spazio di buoni tre quarti d’ora tenevo le braccia in forma di croce e, per il timore che si piegassero per la stanchezza, le legavo, perché stessero sospese in alto in forma di croce. Mi esercitai per qualche tempo in queste mortificazioni, ma poi dalla obbedienza mi furono proibite: il mio direttore dubitò che mi si guastasse la salute.

Tutto questo si praticava da me al solo fine di piacere al mio amorosissimo Dio. Gli occhi li tenevo sempre bassi e modesti, né mai li lasciavo trascorrere sopra di alcuna persona, particolarmente di sesso diverso. L’esercizio di questa virtù mi costò moltissime burle e scherni e beffe, non solo dai parenti, ma eziandio di altre molte persone. Mi esercitavo in casa in offizi bassi, come sarebbe scopare, provvedere alla cucina legna e carbone, avendomi mia suocera consegnato la dispensa e la cantina. Per scemare la fatica ai domestici, io mi caricavo sulle proprie forze carichi molto gravosi di legna e carbone, ed altre fatiche manuali, come sarebbe custodire il pollaio, misurare la biada per i cavalli della carrozza, ed altre cose laboriose e vili che occorrevano in casa.

7.6. Passai al terzo stato

Digressione. Spero di avere adempiuto a quanto vostra paternità reverendissima mi ha comandato nei passati fogli, cioè di manifestare quali fossero le mortificazioni che esercitavo, avendole nei passati fogli solo accennate e a bella posta occultate. Avendo nel presente foglio fatto la dichiarazione, spero di aver soddisfatto alla santa obbedienza.

Ecco manifestato quanto, con la grazia di Dio, praticai per molto tempo, fin tanto che dall’obbedienza quelle mortificazioni più ripugnanti mi furono proibite. In mezzo a queste mortificazioni il mio spirito era sempre intento e rivolto all’oggetto amato; sospirava il felice momento di arrivare alla sommità del Santo Monte, dove mi aspettava il mio Signore. Finalmente, una mattina, dopo la santa Comunione, nel mese di giugno 1808, fui condotta nella terza isola, che è quanto dire che con la grazia di Dio passai al terzo stato, dove la povera anima mia ricevette una particolare giustificazione.

Oh, come si accese di santo amore la povera anima mia! Dal divino Spirito fui tragittata in questa terza isola, mentre, come dissi, le altre due isole da me abitate per l’addietro, erano di rimpetto al Santo Monte, ma questa terza di cui intendo parlare mi pareva si trovasse ai piedi del Santo Monte, dove l’anima mia con ogni facilità dall’isola passava a godere l’amenità del sacro Monte, tutte le volte che Dio si degnava chiamarla per unirla a sé intimamente.

7.7. Vittima dell’amore

Fui dunque dal divino Spirito condotta per mezzo del suddetto battello alla suddetta isola. Il divino Spirito mi favorì della sua grazia, sotto simbolo di vento amenissimo, di aura di paradiso, per mezzo di interna dolcezza mi condusse dolcemente, soavemente sospingendo il mio battello con somma leggiadria. Facendomi provare gli effetti mirabili della sua divina carità, si fece padrone del mio cuore, e l’anima mia restò vittima dell’amore. E sperimentai nell’anima e nel cuore un deliquio poco meno che mortale; per l’esuberanza dei buoni effetti che mi cagionò, questo distinto favore, mi tenne per molte ore alienata dai sensi, e per dieci o dodici giorni restai poco e niente presente a me stessa. Questi favori mi facevano oggetto di scherno e di burla dei miei parenti, ma l’anima mia era incapace di ogni apprensione, ma contenta se ne stava in se stessa, godendo l’amato suo bene; non curando, non amando cosa alcuna della terra, godeva veramente un paradiso di delizie.

L’amorosissimo Dio mi fece intendere che queste grazie, questi favori che si degnava compartire alla povera anima mia, non si degnava accordare a tutte le anime che lui ama, neppure dopo lunghissime penitenze ed esercizi delle più sode virtù facendomi così conoscere quale e quanta debba essere la mia gratitudine, la mia corrispondenza.

A questa cognizione l’anima mia si umiliava profondamente e con abbondanti lacrime, piena di stupore, andavo ripetendo fuori di me stessa: «Quid est homo quod memor es eius?… Mio Dio, mio Signore, e chi mai sono io, che tanto mi amate? Sia benedetto il vostro amore, sia benedetto il vostro ss. Nome, sia benedetta la vostra infinita bontà e misericordia!».

In mezzo a queste espressioni, godevo una dolcezza di spirito molto particolare che mi tenne, come già dissi, per ben dodici giorni sopita, poco, quasi niente presente a me stessa. Questo supimento nasceva dalle interne illustrazioni che il divino Spirito si degnava compartirmi. Dimorai dunque per lo spazio di circa tre mesi in questa isola. Bene spesso ero invitata dall’eterno Dio al Sacro Monte, dove mi favoriva con grazie molto particolari, ora conducendomi in una parte, ora dall’altra del vastissimo Monte. Ora mi faceva ascendere sopra le amene colline; facendomi gustare i buoni effetti della particolare sua carità, come al suo luogo dirò, mi dava a vedere il Monte Santo, la terra di promissione, la santa Città, il regio palazzo del sommo Re. Ora mi conduceva nei preziosi giardini, facendomi sperimentare i buoni effetti della sua grazia: non avevo veramente che desiderare.

Restai dunque per qualche tempo in questa isola, ma bene spesso ero chiamata da iddio al santo Monte: m’invitava per mezzo di certi tocchi interni, per mezzo dei quali l’anima si solleva e iddio si degnava favorirla della sua particolare grazia, conducendomi ora nei preziosi giardini, ora sopra le amene colline, dove mi dava a vedere cose molto belle e misteriose.

7.8. L’amoroso Giardiniere

Più volte mi si fece vedere nella sua ss. umanità, sotto la forma di piccolo giardiniere, tutto intento a lavorare la povera anima mia, che sotto la forma di bella pianta mi si rappresentava, coltivata dal nobile giardiniere.

Una volta, fra le altre, mi si fece vedere tutto intento a coltivare, l’anima mia, che sotto la forma di pianta di olivo la vedevo. L’amoroso giardiniere, dopo aver con piccolo zappetto lavorato d’intorno alla pianta e levate tutte le cattive erbe, da bellissima fonte vicina con prezioso vaso il nobile giardiniere prese dell’acqua, ma, prima di attingere il misterioso vaso, lavava nella fonte le sue ss. mani.

Oh misterioso portento! dalle cicatrici delle mani tramandava tanto sangue che l’acqua non più bianca, ma rossa compariva! Allora prese il vaso e lo attinse nella fonte, e tutto amore, e tutta carità, innaffiò la pianta suddetta, ma non già come usiamo noi, di annacquare le sole radici delle piante, ma l’esperto giardiniere con quel misterioso vaso triangolare mandava in alto la prodigiosa acqua, e, spruzzando la frutta e le fronde dell’albero, passava a bagnare le radici di acqua e di sangue insieme. In questo tempo nell’anima sperimentavo un bene molto particolare, che purificava il mio cuore: un bene che ricreava lo spirito e mi faceva bramare di rendere copiosi frutti all’amato lavoratore.

Ma, come poco fosse il suddetto favore, di nuova grazia mi degnò il Signore. Dopo aver spruzzato di acqua e di sangue la suddetta pianta, ascese sopra una vicina collina, mirando la pianta tutta aspersa del suo prezioso sangue, dolcemente se ne compiaceva; sollevate le mani al cielo, tramandò dalle cicatrici del suo ss. corpo tanta luce che il riflesso dello splendore rifletteva nella pianta che, per essere così spruzzata di acqua e di sangue, partecipava dello splendore per parte di interna attrazione. La forza dello splendore penetrava le radici, e la pianta si sollevava e si univa alla luce, che dolcemente la tirava. In questo tempo la povera anima mia si sentiva dolcemente tirata dall’onnipotente Dio. Tre mesi circa abitai la suddetta isola, e altri nove mesi dimorai alla falda del Monte Santo, dove dallo Spirito del Signore ero condotta, ora in una parte, ora dall’altra.

Ero dunque bene spesso favorita dal Signore nell’orazione. (dal Diario di Elisabetta Canori Mora)

Elisabetta Canori Mora

Ti voglio trinitaria scalza (dal Diario di Elisabetta Canori Mora)

Elisabetta Canori Mora

Conoscevo cose riguardanti l’infinito amore (dal Diario di Elisabetta Canori Mora)