Essere genitori oggi

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Quando nel gennaio 2011, in occasione di un dibattito pubblico, dissi che a breve, con mia moglie, avremmo partorito, la gente rise pensando ad una spiritosa provocazione. Nella realtà non saprei trovare un modo diverso per descrivere la nostra esperienza.
La fisiologia femminile è strutturata in modo tale da poter affrontare in modo assolutamente autonomo tutte le fasi e le difficoltà del periodo che va dal concepimento, attraverso il parto e fino ad almeno il primo anno di vita del nascituro.
E questa cosa è tanto vera che il momento della nascita di un figlio può diventare una delle prime prove veramente serie che una coppia possa incontrare sul proprio percorso di vita insieme. Il terzo che arriva può far scattare tutta una serie di meccanismi di allontanamento tra i due che difficilmente saranno poi disinnescati e produrranno effetti per il resto della vita insieme.
Quello che molto di frequente accade è che la donna vive tutto questo periodo da sola o affiancata da altre donne mentre il partner è relegato ad un ruolo di osservatore. Per tradizione, gravidanza e parto sono cose da donne.
Ma non è così obbligatoriamente. Nella realtà il partner può avere un ruolo attivo e creativo in tutto questo, e ciò a vari livelli di partecipazione.
Questa è stata la nostra esperienza, a partire, ovviamente, dal condividere il percorso della gravidanza in tutte le sue fasi, scegliendo, ad esempio, di seguire come coppia un corso di preparazione al parto.

Ci siamo sentiti dei marziani quando ci siamo iscritti al corso, guardati con imbarazzo e prevenuti sul fatto che la mia presenza non poteva essere garantita, in quanto unico maschio (sic!) presente, cosa che avrebbe potuto provocare inibizioni alle altre partecipanti. Non fu poi però sempre così, qualche volta fummo anche in due, e nessuna delle altre donne manifestò perplessità per la mia presenza.
Altrettanto ovviamente abbiamo condiviso tutti i momenti di controllo medico.
Da subito abbiamo dovuto sperimentare quanto la prassi diagnostica si sia imposta con invadenza in questa fase della vita con tutta una serie di indagini spesso non obbligatorie, alcune addirittura con risultati di tipo solamente probabilistico, mirate all’individuazione precoce di sofferenze del bimbo che verrà.
A parte i controlli necessari e obbligatori, dunque, il personale medico tende a prescrivere come ovvi anche questi altri tipi di controllo, senza chiederne il preventivo consenso né informando della non obbligatorietà. Il primo di questi ci colse impreparati e lo eseguimmo, inesperti quali eravamo; eppure avevamo informato
il medico che non avremmo voluto conoscere altro che non fosse necessario per un sano evolversi della gravidanza e per un utile aiuto al nascituro.
Rifiutammo, perciò di svolgere ogni altro tipo di controllo di questo tipo. La cosa non è stata semplice, ha significato stare sempre in guardia, chiedere le finalità e l’utilità di ogni prescrizione, informarsi anche autonomamente. Tutto questo può essere solo il frutto di un responsabile confronto tra i partner sulle scelte etiche
comuni e necessita una reciproca cura e custodia.
E d’altronde, a che pro sapere in anticipo eventuali sofferenze future o malformazioni se si è fatta una responsabile scelta a favore della vita a qualsiasi condizione?
Per caricarsi in anticipo di inquietudini e pene, oscurando così un momento che può essere invece denso di meraviglia e comunione, quale che sia il futuro? A ciascun giorno il suo affanno.
Il corpo della donna, quello del feto, abbiamo appreso andando avanti, sono campo di lavoro per la medicina invasa dalla tecnica, terreno di indagine. A partire dal semplice ossessionante uso delle cardiotocografie. Donne gravide vengono gettate supine su un letto per intere mezz’ore, nella posizione peggiore per l’ossigenazione
del feto, in quanto il suo stesso peso opprime l’aorta che fa passare il sangue materno che gli dà vita. E intanto un apparecchio indaga lanciando ultrasuoni nel liquido amniotico alla ricerca del battito di un cuoricino frenetico. È noto che le frequenze rallentino attraversando i liquidi e così non è per nulla peregrina la tesi che quegli ultrasuoni inudibili all’esterno producano invece un fastidioso brusìo per l’udito sensibilissimo del nascituro. Non è infrequente infatti che durante queste indagini il feto sia particolarmente irrequieto. Eppure, soprattutto in prossimità del parto, se ne intensifica l’uso che diventa parossistico nella fase del travaglio.
È stata una dura lotta, che spesso ci ha causato minacce e terrorismi, sarcasmi, il rifiutarci se non per le tre volte in tutto in cui lo abbiamo ritenuto indispensabile.

Altro aspetto, quello della preparazione fisica al parto. Si tratta di una prova immane per il corpo, eppure nella quasi totalità dei casi ci si avvia senza alcun tipo di preparazione. L’OMS raccomanda alle nazioni di non superare il 13-14% di parti con cesareo e invece l’Italia si aggira attorno al 37-38%. Nel 2008 la capitale mondiale
dei cesarei è stata Reggio Calabria con il 68%.
I motivi sono tanti e spesso legati agli interessi di una medicina troppo autoreferenziale, orientata dalla prassi a trattare questo evento come una malattia da cui si guarisce non di rado con un intervento chirurgico.
Ma ci sono anche motivi culturali che riguardano direttamente l’abitudine di cedere passivamente la gestione del proprio corpo ad altrui senza considerarsene responsabili. Un corpo che invece si prepara può affrontare l’evento con serenità.
La presenza del partner è importantissima per un tale percorso. Può incitare e incoraggiare alla costanza nell’esercizio, può alleggerire la compagna di molte incombenze quotidiane, può entrare in comunione con il corpo dell’altro compiendo  lo stesso cammino.
Con tutto l’impegno possibile l’uomo deve comunque ritrarsi. Quello che vede compiersi ogni giorno che passa è qualcosa che non potrà mai pretendere di aver compreso o vissuto fino in fondo. Vedere il pancione crescere, osservare i guizzi attraverso la pelle tesa, seguire le piccole e delicate forme del corpicino raggomitolato con le dita, sono tutti eventi esterni.
Però una cosa è percepire il corpo della compagna come il contenitore di un dono che a breve sarà consegnato, altra è sentire di avere accanto un unico vivente che si evolve e si differenzia gradatamente, del quale prendersi cura con tutte le proprie capacità.

Il momento del travaglio è tutt’ora uno dei momenti più belli che ricordiamo di tutta l’esperienza, a partire dalla scoperta della gravidanza, maggio 2010, fino ad oggi. Ci siamo preparati a viverlo nel nostro privato, determinati a rimanere a casa il più possibile, quando fosse arrivato il momento; non ci siamo lasciati influenzare
dalle diffidenze e dagli incitamenti a lasciar perdere perché troppo rischioso.
Sarebbe stato nostro desiderio poter arrivare fino al parto in casa, ma l’assistenza sanitaria calabrese non è al momento attrezzata per questo. Quando sono arrivate le ondate di prime dolorose contrazioni era sera tardi. Dopo un veloce controllo all’ospedale per capire se era il momento, via a casa, con le minacce del medico e
le derisioni del pronto soccorso.
Abbiamo passato la notte dormendo a tratti il più possibile, facendo esercizi di respirazione, facendo massaggi man mano che le contrazioni diventavano più intense, cosa che avvenne con il far del giorno. Abbiamo continuato con massaggi, esercizi e camminate fino al momento di andare all’ospedale, a metà mattina.
Quello che invece di solito accade è che la partoriente viene ricoverata in una stanza d’ospedale appena ci sono le prime avvisaglie, passa molto del suo tempo a letto, rallentando ancora di più il processo, spesso in compagnia solo di altre sconosciute,
tra lamenti e inquietanti amplificati battiti cardiaci sconosciuti.
Avevamo avvisato il reparto del nostro desiderio di ridurre al minimo l’uso di medicinali e di permettere alla natura di fare il suo corso. Giunti lì fummo traditi.
Un’orda di gente in camice ci accerchiò, ci divise per un’ora lunghissima, stimolò, iniettò medicine senza una spiegazione se non confusi allarmi (che si rivelarono poi senza alcun fondamento). Noi, inesperti, non sapemmo resistere. Ci portarono in sala parto e anche lì si fece il volere medico, nonostante le nostre proteste. Tutto
andò bene, come sarebbe andato anche senza il loro “aiuto”.

Nella fase dell’accudimento – oggi molto è cambiato nel rapporto tra i partner– non è più così frequente che l’uomo non si senta obbligato ad assumersi parte del grande impegno che comporta. Oramai molti padri cambiano i pannolini o fanno la ninna al neonato. Ma ancora l’aumento di impegno nella routine casalinga è per lo più solo di tipo quantitativo, non qualitativo. Molti uomini “danno una mano”. Come se comunque la responsabilità di tutto non fosse condivisa, ma esclusivamente della donna.
L’allattamento, ad esempio. Anche in questo caso la prassi medica non incentiva affatto se non in modo casuale, e comunque spesso solo a parole, l’allattamento materno. Con estrema facilità prescrive il latte artificiale. Ci vuole spesso una grande forza di volontà e costanza per mantenere a lungo il nutrimento dal seno materno.
Appena nata la nostra piccola, subito ha dovuto ingerire il glucosato a nostra insaputa e nessuno si è preoccupato di aiutare nella difficile fase iniziale in cui la piccola deve apprendere a succhiare in modo corretto. Ma noi eravamo preparati. In seguito è stata spesso dura, qualche volta è capitato che il latte diminuisse e subito arrivava il consiglio medico di passare al nutrimento artificiale. Nessuno
spiega alla donna che il latte può di nuovo tornare a prodursi. Lo abbiamo scoperto informandoci e non cedendo. Senza una condivisione dello sforzo, dell’impegno nella coppia, senza incoraggiamento reciproco, tutto ciò risulterebbe estremamente
faticoso. Ancora più difficile oggi, che la donna ha anche spesso una propria vita lavorativa extracasalinga, come nel nostro caso. Ma abbiamo superato anche questa
prova. Abbiamo deciso che avremmo interrotto l’allattamento gradatamente con il primo anno di vita.
Con il passaggio al nutrimento solido, dopo la primissima fase, abbiamo da subito cercato di inserire nei ritmi familiari i pasti della piccola: si mangia tutti insieme a tavola. E spesso anche tutti la stessa cosa. È stata l’occasione di provare a sperimentare pasti più sani per noi stessi, senza condimenti, senza sale (magari aggiungendolo successivamente nel proprio piatto). È molto divertente e stimolante.
Scoprimmo in seguito di aver applicato un comportamento oggi consigliato (ma da ben pochi pediatri) e definito “autosvezzamento”.
La questione sta in questi termini: il piccolo appena giunto non è un elemento di disturbo nei ritmi familiari oramai consolidati, è una ventata di aria nuova, è l’occasione di sperimentare nuove dimensioni, di coppia. Ciò è possibile solo se entrambi accettano la sfida.
Purtroppo spesso il pasto è uno dei momenti in cui si sperimenta la mancanza di reciprocità del rapporto di coppia. Di solito chi prepara è impegnato ad accontentare i desideri dell’altro. Che scarica in questo momento familiare la mancata autorealizzazione che il mondo lavorativo esterno gli impone. Se il pasto è un momento di sublimazione del bisogno di possesso allora il mio desiderio diventa
sacro e non sono disposto a negoziarlo. Il terzo con i suoi bisogni sarà relegato in una parentesi di tempo che non intralci, finché non sia grande abbastanza da accettare le regole stabilite prima del suo arrivo.
Le questioni che si affrontano sono moltissime ma una considerazione può esprimerne il senso. Un figlio impone agli adulti una velocità diversa. Per motivi esterni, ad esempio il lavoro, questa nuova velocità sarà interamente assunta solo da uno dei partner, di solito la madre, che dovrà rinunciare a diversi momenti della sua vita sociale o professionale. Questo difficile aspetto della genitorialità di
solito è eluso dall’uomo che continua a mantenere praticamente gli stessi ritmi di prima. Se però entrambi accolgono la sfida, accettano di rallentare, questo potrà significare mantenere una socialità attiva, senza che nessuno dei due sia costretto a fermarsi del tutto. Abbiamo cercato di sperimentare questo.

La cultura mediterranea ha una forte impronta patriarcale e dentro la matrice ebraico-cristiana trova un modello nella figura di Dio Padre. Una figura densa di caratteri materni. Le pagine bibliche ce lo descrivono in tutto il Suo interesse per la cura e la crescita dei figli. Invece la figura paterna a cui si fa riferimento ha come sua caratteristica principale quella della protezione virile, deresponsabilizzata per il resto, quasi che qualità come la tenerezza la depotenziassero.
Ripensando alla nostra esperienza del parto non potremmo scriverla altrimenti che come traumatica. Per qualche mese abbiamo evitato di parlarne, soffrivamo.
Però ricordandola a distanza di tempo vediamo adesso tante altre cose: la forza che ci ha uniti in quei momenti, il percorso fatto insieme, la serenità delle ore del travaglio, pur nella sofferenza, il contatto fisico.
Fino a qualche generazione fa molte cose della vita andavano in un certo modo perché erano sempre andate così, senza porsi troppe domande. La famiglia, il matrimonio, i figli: era così da sempre. Oggi tutto quello che affrontiamo deve darci prima risposte soddisfacenti, la tradizione non è più un motivo sufficiente. Se prima una donna aveva più figli, qualunque fosse stata la sua precedente esperienza o il suo dolore, oggi non è così. Una donna che subisce un’esperienza traumatica del parto riflette a lungo prima di decidere di avere un altro figlio. Molte donne, addirittura, descrivono come violento l’impatto avuto con la prassi medica.
Vivere il percorso come coppia con tenerezza, cura, conforto reciproco, condividere un cammino trepidante, sì, ma di entusiasmante scoperta, può essere la strada per vivere l’esperienza della nascita non come una disavventura, ma come quello che è veramente: un miracolo.

Daniele Mangiola- da Quaderno n.10 di Scienza e Vita

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