Joyce e il suo debito che non finiva mai

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Foto di Prettysleepy da Pixabay

“Sono nata a Benin City nel 1970 ma mi sono sentita morire il giorno in cui sono arrivata a Torino, e cioè il 10 febbraio del 1999, ero partita da Budapest.  In Nigeria ho lasciato la mamma e sette fratellini e sorelline, quando mio padre morì avevo solo un anno.  Ho frequentato la scuola dove imparai subito il mestiere di parrucchiera per aiutare la mia famiglia.  Mi convinse mio fratello a partire, lui conosceva un uomo che si occupava della sistemazione lavorativa di donne in Italia, cosi firmai con mio fratello un contratto per il rimborso delle spese per il viaggio e impegnammo persino la casa come garanzia ulteriore che il prestito sarebbe stato rimborsato.  Questo contratto venne siglato con un rito vudù il quale mi faceva promettere fedeltà alle persone che mi avrebbero aiutato a trovare un lavoro, e non avrei mai dovuto deluderle altrimenti sarebbe successo qualcosa di brutto.

Mi sentivo una grande responsabilità, avevano dato in pegno tutto ciò che avevano per farmi partire e io non potevo deluderli, mi ero ripromessa di pagare tutti i soldi fino all’ultimo, ma non pensavo che potessero essere cosi tanti.   Era troppo importante per la mia famiglia che io partissi, cosi sottostai alle condizioni anche se un po’ mi avevano spaventato, ma poi neanche più di tanto perché nella nostra terra il rito vudù è usato per tutte le cose.  Partii dal Lagos con altre ragazze, eravamo circa dodici non ricordo con precisione e spero di dimenticare tutto molto presto, per Coutounou.

Qui ci fermammo un mese vivendo in condizioni disastrose eravamo in una camera d’albergo dalla quale non siamo mai uscite, vedevamo un continuo via vai di persone diverse che contrattavano le varie destinazioni quando chiedevamo spiegazioni erano irritati e non rispondevano anzi se facevi troppe domande rischiavi di essere picchiata.  Eravamo tutte terrorizzate ma pensavamo che la causa della clandestinità fosse per risparmiare sul viaggio quindi accettavamo in silenzio, anche se l’odio verso queste persone andava sempre più aumentando.   Proseguimmo il viaggio per Budapest dove ci unimmo ad altre venti ragazze con le quali vivevamo in un appartamento ed anche qui non uscivamo per timore della polizia.  La situazione andava sempre peggiorando e la paura andava sempre più aumentando non potevo scappare perché pensavo alla mia famiglia che sperava nei soldi che io avrei mandato.  Cercavo di convincermi che arrivati in Italia avrei trovato la salvezza, un bel lavoro e avrei mandato tanti soldi alla mia famiglia però la paura alcune volte mi faceva crollare questi bei  pensieri che mi aiutavano ad andare avanti e mi dicevo che molto presto sarebbe finito tutto.  Dopo un po’ di tempo partii con altre nove ragazze e un uomo, il peggiore degli accompagnatori, cercammo di raggiungere il confine a piedi e dopo quattro giorni di cammino in sostanza senza mangiare niente raggiungemmo una stazione di un paese piccolino di cui non ricordo il nome e partimmo per Torino.

Durante il viaggio ricominciammo a sorridere e a pensare che era tutto finito avevamo sofferto tanto e i nostri accompagnatori anche se ci avevano fatto soffrire tanto, in fin dei conti, in quel momento ci sembrava che avessero fatto tutto questo per assicurarci l’arrivo in Europa, rischiando di essere catturati dalla polizia per offrirci la possibilità di trovare un buon lavoro.  Arrivati a Torino ci venne a prendere in stazione la madam la quale ci condusse a casa, ci diede abiti molto corti, vestiti che non coprivano e ricordo che pensavo che sarei morta congelata se solo li avessi messi. Faceva tanto freddo, poi ci diede un pacco di preservativi e ci disse che se volevamo saldare il debito contratto (che ammontava a circa 45 mila euro) avremmo dovuto iniziare subito a lavorare sulla strada e che se ci fossimo rifiutate avrebbero raccontato alle nostre famiglia che lavoravamo come prostitute oppure avrebbero ucciso i nostri famigliari o saremmo morte noi.  Ero sconvolta per tutto quello che stava succedendo, non riuscivo a riscaldarmi sulla strada, non volevo rendermi conto che tutto questo stava succedendo proprio a me.  Non riuscivo quasi mai a portare i soldi che quella donna voleva e cosi mi picchiava e per punizione mi faceva stare sulla strada notte e giorno, ero costretta a lavorare dalle dieci del mattino fino circa le quattro del pomeriggio e poi tornavo a casa per riscaldarmi e mangiare, poi ritornavo in strada alle dieci di sera e di nuovo a casa alle sei del mattino.

Dopo un po’ mi sono abituata, anche perché avevo capito che se mi fossi comportata bene non sarei stata più picchiata e avrei pagato subito il debito e così sarei tornata libera e sarei potuta tornare in Nigeria con l’aiuto di un cliente che mi amava, che poi alla fine ho scoperto che era sposato e mi raccontava tante bugie.   Ho deciso di uscire dal giro e di denunciare la madam perché una volta che avevo terminato di pagare il mio debito e tutte le spese, la mia madam mi aveva chiesto altri cinque milioni per le spese extra che aveva dovuto sostenere per il mio mantenimento,… li ho pagati, ma dopo poco mi ha venduto ad un’altra madam che avrebbe voluto per la mia libertà altri settanta milioni.  Ho finalmente capito che non sarei stata mai più libera per il resto della mia vita, che non sarei mai più tornata a casa e che sarei morta facendo questo brutto lavoro, cosi ho deciso si contattare un gruppo di ragazzi che erano stati gentili con noi sulla strada ci venivano a trovare una volta la settimana e ci portavano, quando faceva tanto freddo un bicchiere di tè caldo.  Ho avuto il coraggio di denunciare la mia madam perché non voglio che ciò che noi abbiamo vissuto e abbiamo subito da  queste persone malvagie possa capitare ancora ad altre ragazze sfortunate. Vorrei tanto aiutare le altre ragazze che come me sono state ingannate, ma è ancora troppo presto per ritornare su quelle strade dove ho rischiato molte volte di morire.”
Joyce

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