
Studiando le varie legislazioni europee sul tema dell’aborto ho approfondito il caso della Svezia dove esso è stato parzialmente legalizzato nel 1938, ma con restrizioni significative. La legge allora in vigore lo consentiva solo in casi specifici, come per motivi medici, eugenetici (rischio di malattie ereditarie) e in caso di stupro. Una legge sbagliata che almeno delle regole stringenti. Tuttavia, l’aborto volontario su richiesta della donna non era ancora permesso.
La svolta decisiva avvenne con la Abortlag (1974:595), entrata in vigore nel 1975, che garantì alle donne il diritto (??) di interrompere la gravidanza fino alla 18ª settimana senza necessità di fornire una motivazione. Questa normativa è tuttora in vigore.
Nel 2009, il Consiglio Nazionale della Sanità e del Welfare svedese (Socialstyrelsen) ha stabilito che, essendo l’aborto fino alla 18ª settimana un diritto inalienabile della donna, è possibile interrompere la gravidanza anche per motivi di selezione del sesso del nascituro, poiché la legge non richiede di fornire una giustificazione
Dovremmo rispondere con le parole di Oriana Fallaci:
“Un figlio non è un dente cariato. Non lo si può estirpare come un dente e buttarlo nella pattumiera, tra il cotone sporco e le garze. Un figlio è una persona, e la vita di una persona è un continuum dall’attimo in cui viene concepita al momento in cui muore.” (dalla Lettera a un bambino mai nato di O. Fallaci)
Purtroppo, se si accetta il principio che la vita di un nascituro sia disponibile alla volontà di un’altra persona—sia essa la madre, i ricercatori che intendono utilizzare un embrione per scopi scientifici, o il padre che vuole impiantare un embrione congelato per garantirsi una discendenza—ogni motivazione diventa plausibile e ogni limite finisce per cadere.
Non possono esserci eccezioni alla tutela della vita e alla sua inalienabilità. Nessuno ha il diritto di sopprimere la vita di un feto o di un embrione.
Non può esistere una selezione degli embrioni o delle gravidanze basata sulla salute, sulla presunta perfezione fisica—spesso valutata erroneamente, anche a causa di diagnosi fallaci o di una medicina difensiva che porta ad atteggiamenti precauzionali eccessivi—o su desideri e aspettative soggettive dei genitori, come il colore degli occhi o dei capelli.
La vita non può essere trattata come un prodotto da modellare secondo criteri di convenienza o desiderabilità. La Svezia, purtroppo, è un esempio di come le legislazioni possano scivolare verso un uso consumistico dell’aborto. Se si inizia a considerare la vita come una scelta personale e arbitraria—”scelgo chi voglio tenere, quando tenerlo, scelgo di abortire quante volte voglio”—si perde di vista l’umanità e la dignità del nascituro. L’aborto diventa un atto che si giustifica sulla base di criteri superficiali, senza considerare le implicazioni profonde di ciò che si sta facendo.
Quando poi ci si confronta con le reali conseguenze di queste scelte, il dolore può essere insopportabile e difficile da affrontare. Le leggi possono giustificare ogni decisione, le parole possono dare una parvenza di razionalità, ma nel nostro intimo, quando ci fermiamo a riflettere, restiamo soli con la nostra coscienza. Ed è lì, nella solitudine del nostro cuore, che si rivela la vera grandezza della vita e la responsabilità di ogni decisione che prendiamo. Nulla può alleviare quel peso interiore, che non è mai davvero compreso fino in fondo, se non nel momento in cui ci si confronta con le scelte fatte.