Le regole dello stato civile per quanto riguarda la trasmissione del cognome ai figli.

Senato della Repubblica Seconda Commissione
Audizione informale nell’ambito dell’esame dei disegni di legge nn. 170, 286, 2012,
2276 e 2293 sul tema del “Cognome dei figli”

Egregio Signor Presidente, Senatrici e Senatori,

grazie per questa opportunità che mi viene concessa.

Vorrei iniziare con un breve excursus circa il significato dell’attribuzione del cognome ai figli, perché la questione non è per nulla banale, né scontata, sul piano culturale e sul piano delle conseguenze giuridiche. Il cognome è un “nome aggiunto” al nome proprio che ci definisce, segnando la nostra appartenenza a quel particolare e speciale gruppo costituito dalla nostra famiglia: un gruppo caratterizzato da forti legami relazionali e formato da persone legate fra loro da stretti vincoli umani e sociali che definiamo “parentela”. Lo stesso termine “parentela” rimanda al latino “parens”, cioè genitore, colui che ha generato. La parentela, dunque, ci parla di legami specifici, speciali, non scindibili: legami di paternità, maternità, filiazione e fratellanza.

Il cognome nasce appunto per definire in modo inequivocabile questi legami, racchiudendo le diverse identità personali in una identità condivisa più ampia e complessa che sta a significare un vincolo di reciproca responsabilità. Il cognome, quindi, è il segno di un “noi” condiviso, entro il quale la ricchezza dell’individualità non viene persa, ma piuttosto arricchita e meglio definita dalla presenza di una comune storia che porta anche molto indietro nel tempo. Io sono me stesso, in quanto figlio/a (fratello, sorella, padre, madre, nipote …) delle persone della medesima famiglia di cui porto incarnate in me le tracce, anche lontane.

Nel rapporto di parentela, il corpo che genera e che viene generato costituisce la sorgente primaria del reciproco legame e ne determina la forza. Ciò detto, non si può misconoscere che la forza di questo legame biologico non è la stessa nei confronti della madre e del padre. Nel legame con la madre il legame biologico è evidentissimo, diretto, inequivocabile, considerato che è la stessa presenza del corpo del figlio dentro di lei che trasforma la donna in “madre”, originando un legame strettissimo che è da subito percepito da entrambi come “definitivo”.

Per contro, il rapporto padre – figlio non è alla sua origine un rapporto “corpo a corpo”, bensì un rapporto indiretto che passa dalla triade genitoriale dell’uomo con la donna-madre attraverso la quale riceve il figlio. Si tratta, dunque, di un legame in cui l’uomo può (ingiustamente!) decidere di sottrarsi, richiedendogli perciò una decisione e una scelta precise: essere padre significa “riconoscere”, “nominare” quel bimbo come figlio, farne il proprio erede, immetterlo in una storia di relazioni che affondano in radici lontane. Una scelta che impone una precisa assunzione di responsabilità.

È evidente che in questo caso la valenza culturale e sociale supera decisamente la pur presente valenza biologica, tanto da richiedere un forte riconoscimento esplicito: l’attribuzione del cognome paterno va esattamente in questa direzione. È il modo al contempo concreto e simbolico in cui un uomo accetta e insieme dichiara di legare a sé il figlio in modo definitivo, inserendolo nella propria storia così come suo padre aveva fatto con lui, definendo quell’ “ordo succedentium generationum” che segna la storia di ognuno di noi e della nostra stessa civiltà. In questo senso, dare al figlio il proprio cognome vuol dire anche fare i conti con il proprio essere figlio di un padre, con i suoi pregi e difetti, accettando di portarne avanti l’eredità.

La maternità non ha strettamente bisogno di questo sostegno per affermare il legame e confermarlo nel tempo: l’eredità delle madri passa soprattutto attraverso il canale biologico e affettivo ed è lì che gioca la sua intensa partita. La madre che ama suo figlio, sente sempre istintivamente l’importanza e la necessità di sostenere il suo rapporto con il padre, chiedendo a questi di essere presente e di costruire con lui un legame stabile, perché sanno molto bene che da un buon rapporto padre-figlio passa una parte importante dell’armonica strutturazione della personalità del proprio figlio.

Proprio per questo, da tempo quasi immemorabile, le madri non sentono nella quasi totalità dei casi il problema dell’attribuzione al figlio del cognome del padre, vivendola al contrario come un gesto di pubblica conferma: il maschio che ha generato il loro bambino se ne assume, da quel momento e con quel gesto, la piena responsabilità non solo personale, ma anche sociale, e decide di collocare il figlio nella propria storia per sempre.

Spero che questa esposizione, necessariamente molto sintetica, possa essere utile ai Parlamentari che stanno valutando i disegni di legge in esame. E proprio sulla base di queste considerazioni, ritengo personalmente inutile arrovellarsi in disposizioni – lo dico con il dovuto rispetto – assai confuse e confondenti, che presentano – purtroppo – il concreto rischio di ingenerare occasioni di conflitto fra genitori/parenti e contenziosi giuridici quando venga chiamato in causa (per l’ennesima volta!) il giudice. I genitori siano liberi di decidere se aggiungere o meno il cognome materno a quello paterno, senza bisogno di modificare in modo foriero di contrasti e litigi una prassi civile consolidata da tempo immemorabile.

Vorrei concludere, ponendo alla Loro attenzione un ulteriore elemento di pericolo: la chiamata in causa, in prima persona, del figlio minorenne di quattordici anni, addirittura di dodici anni e meno! Giudico gravissima una scelta di questo genere, perché espone una persona giovanissima a schierarsi da una parte, opponendosi all’altra, fra i due genitori, obbligandolo ad una scelta che istintivamente va contro la sua natura.

Mi si permetta una brevissima digressione: sono padre di sette figli adottati, che sentono e sentiranno sempre nella propria carne la ferita dell’abbandono da parte dei genitori biologici; sono nonno di dodici nipoti; sono medico ospedaliero da 45 anni e penso proprio di avere una “esperienza di umanità” certamente non usuale; sono in contatto, quotidianamente, con decine di famiglie italiane che soffrono difficoltà e sofferenze di ogni genere. Ebbene l’ultimo dei problemi delle nostre famiglie è legiferare sul tema del cognome. Le famiglie chiedono ai loro Rappresentanti in Parlamento e al Governo, di essere aiutate, sostenute nei vari aspetti che la vita impone giorno per giorno; chiedono di essere aiutate a stare unite per affrontare insieme difficoltà anche gravissime, chiedono di produrre leggi che garantiscano le condizioni perché papà, mamma, figli e nonni possano insieme, ogni giorno, sentirsi considerati e aiutati dallo Stato: posti di lavoro che evitino di essere costretti a fuggire all’estero, fiscalità a misura di famiglia, assegni per i più poveri, un’attenzione speciale al delicatissimo mondo della disabilità, incentivi concreti perché i giovani possano “mettere su famiglia” e “fare figli”… certamente, Signor Presidente e Signori Parlamentari, il tema del “cognome” è sideralmente lontano dai nostri pensieri e, soprattutto, dalle nostre necessità.



Grazie per la Vostra cortese attenzione. Con ossequio
Massimo Gandolfini, neurochirurgo e psichiatra
Presidente Associazione Family Day “Difendiamo i Nostri Figli”
Roma, 26 aprile 2022

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