Diario di prigionia (Kazimierz Swiatek)

La Bielorussia è terra di martiri e Santi, tra cui le 11 Martiri di Nowogródek.

Il Cardinal Swiatek ha subito la persecuzione con due anni passati nel gulag di Marinsk e sette nelle miniere di Vorkuta, sul circolo polare artico, e gli ultimi nella taiga siberiana.

Poi è tornato a casa in un paese distrutto senza chiese ma con tanti fedeli molto forti.

Ecco un diario della sua prigionia.

di Kazimierz Swiatek

Ai tempi di Stalin tutto il territorio dell’Unione Sovietica non era altro se non un immenso gulag, uno sterminato recinto di filo spinato, dove migliaia di reclusi nei lager morivano per le disumane condizioni di vita e di lavoro.

Dopo essere stato due volte nelle prigioni sovietiche, e due mesi nella cella dei condannati a morte, venni mandato al lager dei lavori forzati a regime speciale. Dapprima nella taiga siberiana, successivamente nella tundra del lontano nord. Sono stato tenuto in un estremo isolamento e ciò non mi ha permesso né d’incontrare alcun sacerdote cattolico né d’amministrare il sacramento della confessione. Soltanto negli ultimi anni di lager sono riuscito ad avere l’ostia e il vino per celebrare di nascosto la santa messa. Come calice usavo una tazza di ceramica, mentre tenevo l’ostia consacrata da portare ai cattolici in una scatola di fiammiferi.
Ricordo una messa di Pasqua celebrata con alcuni prigionieri cattolici in un locale di lavanderia tra nuvole di vapore. Di tutta la mia vita sacerdotale fu la Pasqua più cara.

* * *

Una volta, mentre mi trovavo nel lager di Vorkuta, organizzai la veglia di Natale. Portai le mie due porzioni giornaliere di pane messe da parte nei giorni precedenti. Gli altri, erano una decina, offrirono quel che avevano ricevuto dalle famiglie nei pacchi alimentari. Avevamo anche le ostie. Stavo parlando ai presenti quando ad un tratto la porta si aprì ed irruppe un ufficiale di regime, manganello in mano, e con lui un soldato munito di fucile e baionetta. “Che cosa state facendo?”, domandò. Mi alzai per spiegargli il rito natalizio. Poi, tenendo in mano un’ostia, chiesi se la voleva anche lui, scambiando con noi gli auguri di Natale. Era una situazione insolita e colma di tensione: noi due con le mani tese, la mia con l’ostia e la sua col manganello. L’ufficiale ripose il manganello nella custodia e scusandosi disse di non poter accettare l’ostia essendo in servizio, ma ci permise di continuare la nostra veglia e lasciò il locale assieme al soldato. La mattina dopo fui espulso da Vorkuta e mandato nella lontana tundra al nord.

* * *

Per dieci anni sono rimasto completamente isolato dalla realtà del mondo, in particolare dalla realtà della Bielorussia e della sua Chiesa. Con un accanimento davvero satanico venivano perseguitati tutti quelli che credevano in Dio e cercavano di seguire i riti religiosi. E chi, nonostante le terribili persecuzioni, perseverava nella fede si sentiva abbandonato e indifeso.

L’Occidente, pur conoscendo la situazione della Chiesa nell’Unione Sovietica, spinto da certe sue ragioni, forse anche politiche, non intervenne in difesa dei credenti, oppressi e perseguitati dal regime. Eppure la Chiesa in Bielorussia, pur senza le sue strutture ecclesiastiche, sofferente, talvolta anche sanguinante, rimaneva viva ed attiva.

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E venne l’ultimo giorno della mia permanenza nel lager. Fui condotto sotto scorta nell’ufficio del Kgb esterno al campo. Dietro la scrivania era seduto un capitano maggiore e io stavo al muro. L’ufficiale esaminava con attenzione un incartamento voluminoso con la documentazione sui miei soggiorni nelle prigioni e nei lager. Di tanto in tanto alzava lo sguardo verso di me, scrutandomi con espressione sorpresa. Giunto all’ultima pagina mi chiese: “Come hai fatto a sopportare tutto ciò e a rimanere in vita?”. Lui non riusciva a comprenderlo, ma regole del Kgb erano semplici e univoche: per uno come me non andava sprecata una pallottola, erano sufficienti per eliminarmi una fatica sovrumana e le condizioni del lager. Da qui il suo immenso stupore.

Risposi: “Capitano maggiore, la vita io la devo alla mia incrollabile fede in Dio. E’ stato Lui a salvarmela”. Disse il maggiore: “Ma Dio esiste?”. Poi rimase per lungo tempo a riflettere. Era da quest’uomo che dipendeva la decisione sulla mia sorte. Io, fermo al muro, pregavo Dio di aiutarmi, di salvarmi la vita. Dopo una lunga riflessione il maggiore mi guardò con aria di benevolenza (era la prima volta che uno del Kgb manifestava un tale atteggiamento nei miei confronti), prese la penna e con gesto largo appose la sua firma. Poi, con fare gentile, disse semplicemente: “Siete libero”. Sono uscito dall’ufficio senza la scorta, ero libero! E subito ho elevato una preghiera di ringraziamento: Dio come sei potente, come si buono!

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E così nel 1954, dopo dieci anni passati nei gulag, feci ritorno a Pinsk. Entrai nella cattedrale dove nel 1939, all’atto dell’ordinazione al sacerdozio, avevo giurato obbedienza e fedeltà a Dio. Quel giuramento comprendeva tutta la mia vita futura. Era domenica. Nelle prime file c’erano una trentina di donne anziane. Io stavo appoggiato a una colonna. All’altare si affaccendava un omino anziano e zoppicante: stava preparando l’altare per la santa messa e lo faceva in uno strano modo. Aveva posato sull’altare la pianeta e il calice, acceso le candele, suonato il campanello della porta di sacrestia… ma davanti all’altare non si vedeva nessun prete. Le donne si erano alzate; e una di loro, facendo il segno di croce, annunciò ad alta voce il nome della domenica ed iniziò con tutte le altre a dire le preghiere introduttive della santa messa. Dunque, era una messa senza il sacerdote! Una delle donne si alzò e prese a leggere il Vangelo. Non potevo più trattenermi. Scoppiai a piangere. Com’è possibile, dicevo tra me e me: il sacerdote sta qui, appoggiato alla colonna, in incognito, e un’altra persona legge il Vangelo!

Finita questa straordinaria santa messa sono entrato nella sacrestia per parlare con il vecchietto. Ne risultò che sei anni prima il parroco della cattedrale era stato arrestato e condannato a 25 anni di carcere. Ho chiesto se volessero un prete. Sì, ma non sapevano dove cercarlo. Allora dissi che ero sacerdote e che ero stato liberato dal lager sovietico. Iniziai così il mio servizio di pastore delle anime. Avviai le pratiche presso le autorità affinché mi registrassero come parroco della cattedrale. Da quel momento venni fermato più volte per strada, fatto salire in macchina e portato nella sede del Kgb, dove mi trattenevano fino all’alba. Cercavano di convincermi di abbandonare il sacerdozio, promettevano in cambio delle sistemazioni vantaggiose. Ai miei categorici rifiuti rispondevano minacciando di mandarmi di nuovo in prigione. Dopo cinque mesi rinunciarono ai loro tentativi e mi diedero il permesso di svolgere le funzioni di parroco a Pinsk.

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La parrocchia si estendeva dal fiume Bug fino al Pacifico. Non di rado la cattedrale veniva visitata da fedeli che abitavano a migliaia di chilometri da Pinsk. Nelle campagne e nei villaggi i fedeli si radunavano nelle case, con le persiane chiuse, per celebrare insieme la messa. Sempre di sera si radunavano al cimitero per cantare i canti religiosi, senza alzare la voce per non essere uditi nell’ufficio amministrativo della contrada. Il più delle volte recitavano il rosario con i grani fatti di pane.

Ho sempre ritenuto la testimonianza di fede delle donne come una delle cose più preziose. Sono loro, le proverbiali “babushke”, che sono riuscite a conservare la fede in Dio negli anni della persecuzione, quando mancavano sia le chiese che i sacerdoti. È a loro che dobbiamo essere grati per la fede che non è scomparsa per sempre da queste terre così pesantemente oppresse, per i nipoti e pronipoti ai quali esse hanno insegnato almeno il Padre Nostro e l’Ave Maria. Anche se loro non hanno pagato con il sangue per la loro fede, tuttavia la loro vita porta i segni del martirio. Sono figure eroiche, anche se nessuno innalzerà loro un monumento. Onore e gloria a voi, care, amate babushke d’oro!

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Dopo il 1991, fatto arcivescovo, mi sono messo a percorrere lo sterminato territorio della Bielorussia, qualche volta facendo oltre mille chilometri al giorno, scoprendo innumerevoli testimonianze di fede.

In una parrocchia mi venne incontro un giovane sacerdote venuto dalla Polonia. La chiesa era un edificio semidistrutto, senza tetto nè porte. Davanti alla facciata c’era un gruppo d’una ventina donne. Mi si avvicinarono di corsa e con il mio massimo stupore si buttarono per terra ai miei piedi. Io ne ero sconvolto: per la prima volta nella loro vita incontravano un vescovo cattolico proprio davanti alla loro chiesa distrutta. Quindi sono tornate al punto dov’erano prima e con le voci tremanti hanno intonato un canto mariano. Potevo io vescovo trattenere le lacrime vedendo questa testimonianza di fedeltà verso Dio e verso la Chiesa? Poi ho chiesto al giovane sacerdote che cosa gli aveva fatto abbandonare la sua terra per venire in questo luogo desolato. “Padre, appartengo alla categoria dei pazzi di Dio”, fu la sua risposta. L’ho abbracciato, baciato e gli ho sussurrato all’orecchio: “Allora, caro padre, sia pazzo fino in fondo”. E lo fu! Ha già rialzato dalle rovine tre chiese che non sono ancora riuscito a riconsacrare.

Nel frattempo abbiamo visto la caduta dell’Unione Sovietica e la nascita della repubblica indipendente di Bielorussia. Durante un’udienza speciale ai pellegrini provenienti dalla Bielorussia il Santo Padre ha voluto rendere omaggio a tutti coloro che, a prezzo d’indicibili sofferenze ed anche del martirio, sono riusciti a conservare la propria dignità di credenti.
Giovanni Paolo II ci ha mostrato la memoria che redime! I templi vecchi e i nuovi si riempiono di fedeli, tra i quali sono sempre di più i bambini e i giovani che partecipano attivamente al catechismo. Ringrazio infinitamente Dio perché mi ha concesso la grazia di sopravvivere ai lunghi anni di persecuzione e di essere ancora un testimone partecipe alla liberazione, alla rinascita ed allo sviluppo della Chiesa in Bielorussia.

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