Carlo Marongiu. Da un letto in Sardegna ai cuori di tutta Italia

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Narbolia (Oristano)

Tra campi di carciofi e viti di Vernaccia, a pochi passi da distese d’aranci, ogni notte e ogni ora, s’accende la luce della camera da letto di Carlo. Mirella si alza senza sbadigliare, ormai. Fa così da otto anni. Preme il tasto del lume e controlla che la macchina funzioni. Un respiro ogni quattro secondi. Un alito di fiato nel tempo di un amen. La camera di Carlo Marongiu è tutta azzurra e blu come il mare dove dieci anni fa accompagnava i figli Damiano e Ilaria, dove gli piaceva immergere quelle sue robuste braccia di pompiere oggi inchiodate al letto, pietrificate sopra il bianco dei cuscini per colpa della «maledetta», o «Attila» come l’ha ribattezzata. È sla (sclerosi laterale amiotrofica), il male di Welby e Coscioni, la malattia incurabile che rende il corpo di marmo, lasciando alla mente lo sberleffo della coscienza.

Mirella da otto anni si alza tutte le sacrosante notti, ma non se ne lamenta. «I momenti di sconforto esistono, ma sono sempre meno. Quel che vorrei è poter dormire per più di un’ora di seguito». Mirella si leva dal letto per controllare che Carlo sia ancora vivo, oppure solo per sapere se ha bisogno di lei. «La macchina capita che si inceppi, dopo un po’ suona l’allarme, ma può essere troppo tardi. L’altra notte Carlo aveva il volto bluastro». La notte prima era solo prurito. Ma dall’ultima volta che ha sentito la voce del marito sono passati due anni, e anche se le sue piaghe da decubito urlano è un grido muto; nemmeno Mirella, che ogni giorno le medica, ha ancora imparato ad ascoltarle. «Dalle quattro alle sei. Dopo due ore ho capito che gli prudeva dietro qui, sul collo. Allora l’ho grattato e poi sono tornata a coricarmi per svegliarmi alle sette ed andare al lavoro».

Narbolia è un paesino dell’entroterra sardo, posto dove tanti anni fa se vedevi spuntare un filo di ferro dal suolo cadevi nella tentazione di infiammarti le budella. I pastori ci nascondevano l’acquavite e per rammentare dove l’avevano interrata infilavano nel tappo un rametto di ferro che spuntasse di sopra. Ancora oggi non c’è pranzo in queste zone che non termini con un sorso di filu ‘e ferru, sturabudella che definire superalcolico è una bestemmia d’eufemismo. Puro bruciore d’alcol, buono per avviare i motori dei trattori e l’allegria dei cuori del popolo sardo. Carlo Marongiu è come una bottiglia di quest’acquavite, con il corpo sotterrato, costretto nell’immobilità totale, ancorato a un suolo innaturale. Ma con un filo ferrigno, sottilissimo e resistente, che sono i suoi occhi, il suo udito e il suo cuore, che dà segnali a quelli di fuori. Quasi a incoraggiare ad avvicinarsi, a farsi un goccio, un abbrivio di vita che sfoci in risata. Che male vuoi ci sia? La gioia di vivere ha il sapore della grappa. È l’acqua del quieto vivere che fa la ruggine.

Uno spaventapasseri benefattore

Carlo ha chiesto che la porta di casa rimanga sempre serrata. Dopo undici mesi trascorsi a rimirare il soffitto della rianimazione, appena varcata la soglia della sua abitazione ha espresso questo semplice desiderio. Non per scoraggiare gli scocciatori – che son sempre benvenuti –, ma perché gli piace sentire il suono del campanello, sapere così che qualcuno è arrivato, avere il tempo di preparare l’accoglienza degli occhi. Impresa non facile, questa della porta. «Qui è un via vai di gente tutto il giorno». Da Carlo arrivano persone di ogni tipo e Mirella fa l’elenco: amici, parenti, vigili del fuoco, politici, parroci e suore. Ma poi anche usurai, ex carcerati, fidanzati in crisi, drogati, mogli infelici. Soprattutto mogli infelici. Fino a qualche tempo fa, aiutato dall’amico Mario, Carlo riusciva a scambiare sms con molte di loro. A Mirella non è che proprio la vicenda andasse a genio. «Questa dei messaggini proprio non l’ho digerita. Tvb, tvtb, baci e abbracci. ma che vogliono queste?». Che c’è, Mirella, sei gelosa? se la ride Mario. Ma no, si fa per scherzare. Invece è gelosa, e si vede. è proprio una santa donna.

Di lei Carlo ha detto:

«Qualcuno ha detto che io e Mirella siamo due pezzi di legno che uniti insieme formano una croce ed è vero, solo che fino a qualche tempo fa credevo di essere io il pezzo più lungo invece oggi sono convinto che è vero il contrario».

Il via vai dipende dal libro che Carlo ha dettato e che, con la sola forza del passamano e del passaparola, ha raggiunto gente sparsa per tutta Italia. Si intitola Pensieri di uno spaventapasseri ed è nato grazie agli appunti delle persone che lo assistono. Di qui l’idea del libro, stampato in casa e arrivato a 8.500 copie vendute. «Nei primi tre giorni – dice Mirella – ne distribuimmo un migliaio». L’idea di farlo stampare da una vera casa editrice le era anche balenata. Così come la possibilità di poterlo distribuire attraverso delle librerie. «Ma Carlo ha deciso che tutto il guadagnato dovesse andare in beneficenza e gli editori ci chiedevano cinquemila euro solo per stamparlo, le librerie il 40 per cento dei ricavi. Così io ho pensato: ma a chi devo farla la beneficenza, alle librerie?». E’ andata a finire che ogni giorno il telefono squilla cinque o sei volte. E’ gente che vorrebbe averne una copia. Mirella annota l’indirizzo e spedisce. Coi guadagni sostiene anonimamente i poveri dei dintorni. «Così vuole Carlo, la beneficenza o è anonima o non è».

Le pupille pesanti come il piombo

Fino a un anno e mezzo fa, le pupille di Carlo erano delle saette e, racconta Mario, «si riusciva proprio a chiacchierare e farsi delle grandi risate». Oggi si muovono più a fatica e nemmeno è rimasto più un briciolo di forza per sollevare le sopracciglia. Per questo l’amica Franca gli applica due pezzi di scotch che blocchino le palpebre alla fronte. Poi gli pone dinnanzi un pannello di plastica trasparente con le lettere dell’alfabeto. Se le pupille vanno verso la porta è sì, verso la finestra è no. Occorre arguzia per udire i monosillabi delle pupille. Ci vuole una forza titanica, a Carlo, per spostarle. «La D?» chiede Mario. Occhi verso la porta. Altra lettera. «Hai indicato la C?». Finestra. «La A?». Finestra. «La I?». Porta. «Dammi conferma. La I?». Porta tutta la vita. Altra lettera. «La C?». Finestra. «La G?». Finestra. «La N?» Finestra. Si cambia schema: Mario indica la fila di lettere B G N S. «Qui?». Finestra. C H O T. «Questa fila?». Porta. «C?». Finestra. «H?». Finestra. «O?». Porta. La parola è «Dio». All’unica domanda che Tempi ha potuto rivolgergli sulle sue speranze di guarigione, ha risposto: «Dio mi ha detto che ha grandi progetti su di me». Per comporre la frase, tra dettatura e pause, ha impiegato tre ore.

Addentare la vita

Mirella mostra due faldoni di lettere e due scatoloni pieni di corrispondenza. «E’ la gente che scrive a Carlo». Tempo fa una donna in carcere per omicidio gli ha inviato una struggente poesia in cui, verso dopo verso, lamentava di «vivere e non vivere». Carlo le ha risposto parlando di quel suo corpo ridotto a carcere. E le ha raccontato di Mirella «che fa una vita da reclusa». Ma soprattutto le ha detto di non arrendersi, di lottare, di addentare famelicamente la vita. L’ha scritto con gli occhi, sdraiato sul suo letto mentre le cannule gli perforano la pancia, mentre il sapore dell’aria gli arriva in gola attraverso un tubo che gli morde la giugulare. L’ha scritto con parole semplici e decise, come quelle che ci sono nel suo libro.

«La mia speranza è che coloro che leggeranno questi pensieri possano trovare qualcosa di buono, un aiuto concreto per affrontare e combattere le difficoltà che la vita ogni giorno ci para davanti. Ho sempre pensato e penso ancora che la vita vale sempre e comunque la pena di essere vissuta».

Ha detto papa Benedetto XVI: «Saper vedere anche l’aspetto divertente della vita e la sua dimensione gioiosa e non prendere tutto così tragicamente, questo lo considero molto importante, e direi che è anche necessario per il mio ministero». Da questo punto di vista, Carlo è un papa dell’ironia, avendo intriso tutto il suo diario di una gioia che sa far ridere e piangere assieme. Mirella fa sì sì col capo e dice di considerarsi «una donna felice. Dalla vita ho avuto tutto. Un marito eccezionale che amo e che mi ama, due splendidi figli. Se io non avessi tutti i giorni da Carlo questa sovrabbondanza di amore non potrei mai amare così la vita».

Carlo nel libro parla moltissimo di lei, soprattutto per prenderla in giro:

Sapete come è nata la famosa frase di Mirella: «Che c’è?»? Capitava che mi stesse aspirando dal tubo e io muovevo gli occhi per far capire che al termine dell’operazione avevo bisogno di aiuto. Oggi non la dice più, però se muovo gli occhi continua a ripetermi che ha solo due mani, forse pensando che quelle due siringhe di vino che mi danno a pranzo me ne facciano vedere quattro.

Ogni particolare è un pretesto, come il cambio di stagione:

Capisco che sta per arrivare la stagione estiva o quella invernale dalle parole di mia moglie che mi ricorda che il condizionatore consuma.

O le sigarette:

Mirella ha promesso di smettere di fumare appena sarò guarito mentre io ho promesso di riprendere, ma non con le sigarette bensì con i sigari cubani tipo gamba di sedia.

Il vizio è un desiderio solo un po’ più sfrontato. Racconta Franca che la settimana scorsa le ha chiesto di «andare a comprare le sigarette e un accendino. E che le sigarette fossero le Winston, roba robusta mica quelle light. Mi ha detto che quando guarisce la prima cosa che vuol fare è fumare». Non è stata l’unica richiesta. Fra poco è il suo compleanno e vorrebbe un cellulare nuovo. Ma che te ne fai, Carlo, dell’ultimo modello di telefonino?, gli chiede Mirella con finta aria di rimprovero. Niente, s’incaponisce. E che sia alla moda.

Racconta la moglie di non essere mai stata donna pia e religiosa. Qualche Ave Maria, qualche ora a catechismo e poi tanta distrazione. «E anche Carlo era così. Poi con la malattia ho scoperto un uomo nuovo, di una grande ricchezza spirituale che mai avrei immaginato». La stanza azzurra è piena di statue della Madonna, quadri religiosi, crocifissi. Sul petto Carlo tiene delle immaginette di santi.

In uno dei suoi pensieri scrive:

Io sono molto contento di far parte del ‘popolino’ ingenuo e credulone che pensa che la Madonna possa apparire anche negli angoli più desolati della terra, che crede senza vedere e che gli basta recitare una preghiera per sapere che la Madonna è là. Dio non si arrabbierà per questo mio modo di pensare, non si arrabbia mai con me. Al massimo potrà arrivarmi una bacchettata in testa e per questo lo ringrazierò perché sarà il segno della sua presenza.

Come le persone semplici, Carlo ha un senso della fede molto carnale. Quasi cannibalesco. Mirella racconta che è dura convincerlo a non andare a qualche pellegrinaggio: il trambusto per metterlo in carrozzella, il logorio degli spostamenti, la fatica di andare e tornare. Non si potrebbe stare a casa? gli chiede. Ma la fede di Carlo non s’accontenta dei pensieri e non s’arrende al fatto che non possa esprimersi in parole. Così lui ci mette il corpo, e usa il linguaggio muto di queste sue carni di sasso per pregare. E’ per questo che gli spiace molto non poter tornare a Lourdes. C’è stato una volta per chiedere la guarigione e, prima di partire, aveva scritto di essere certo che non sarebbe tornato a mani vuote.

Una vocina dalla grotta di Lourdes

Dicono le persone di fede che il vero miracolo non è la guarigione fisica, ma il cambiamento del cuore. E la frase ha certo una sua verità. Però poi esistono le persone per cui la fede è tendini e muscoli, che credono in nome di quel che non si vede, ma anche di quel che si vede. Poi, è naturale, Dio faccia quel che più gli aggrada.

Molte persone che sono andate a Lourdes prima di me, con l’intento di chiedere grazie per se stesse, mi avevano detto che giunti sul posto questo proposito veniva meno, forse nel vedere tanti malati e pellegrini. Niente di più falso per quanto mi riguarda. Io ho pregato per tante persone, ma molto di più ho pregato per i miei cari e per me stesso, in modo talmente intenso ed insistente che quando sono partito mi è parso di sentire una voce proveniente dalla grotta che diceva: «Era ora che se ne andasse!».

Un osso duro da rosicchiare

Oggi Carlo vorrebbe tanto buscarsi una broncopolmonite. Vorrebbe poter avere tra le mani un barattolo di birra e uno di gassosa per «espellere poi l’anidride carbonica in eccesso, in modo talmente violento da far muovere un albero a cento metri di distanza». Vorrebbe bere a garganella. Vorrebbe seppellire quel tizio «che si è tanto apertamente meravigliato del fatto che io sia ancora vivo». Vorrebbe dire a quel tale che predicava l’effetto placebo del pensiero positivo che, se così fosse, lui non sarebbe malato, «anzi non mi sarei mai ammalato». Vorrebbe anche essere un po’ meno ‘famoso’ perché «Dio non fa mai miracoli eclatanti preferendo quasi sempre guarire umili sconosciuti». Vorrebbe ricordare a tutti gli ammalati che esistono «tre cose capaci di attenuare ogni genere di sofferenza: la preghiera, la pazienza e la fantasia». Vorrebbe «un sottoscala alla Fantozzi nella casa più umile del Paradiso».

Ma soprattutto vorrebbe proseguire la sua buona battaglia contro la maledetta: Questa malattia è proprio una brutta bestia, però ha trovato un osso molto duro da rosicchiare, e se vorrà averla vinta, come diciamo a Narbolia, «si depidi accarzonai bei» (deve tirarsi su per bene i pantaloni).

E come Giacobbe vorrebbe avere ancora un giorno per lottare con l’angelo. Sicuro, alla fine, di averla vinta.

Perché spero di guarire? Perché con i miei pensieri sono riuscito a far ridere la Santissima Trinità, la Madonna e tutti i Santi. Probabilmente era da un pezzo che in Paradiso non si rideva così di gusto e, riconoscenti per questo, prima o poi finiranno per accontentarmi.

Boffi Emanuele – Tempi
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Carlo Marongiu è volato in cielo nel 2008, la sua storia è raccontata nel libro “Pensieri di uno spaventapasseri”.
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