Il giorno della Visitazione di Maria Santissima, il 2 luglio 1805, dopo la santa Comunione, mi trattenevo con molto raccoglimento a considerare l’infinita misericordia di Dio nel tollerare la mia ingratitudine. Quando fui sorpresa da dolce sopimento.
In questo tempo fui trasportata in spirito in luogo magnifico, dove vidi nell’altezza dei cieli l’augusto trono di Dio. Nel vedere cosa così grande e magnifica il mio spirito si riempì di sommo timore. Molti messaggeri celesti cortesemente mi invitavano, da parte dell’eterno Dio, ad approssimarmi al magnifico trono, ma il sommo timore non mi permetteva di accettare l’invito. Quando a bella posta, apparve la gran Madre di Dio, tutta ammantata di chiarissima luce, tutto amore verso di me, mi dava con dolci parole coraggio, acciò mi fossi approssimata all’augusto trono.
Mio Dio, qual confusione è per me manifestare i tratti della vostra infinita misericordia!
La divina Signora mi onorò, con l’accompagnarmi lei stessa al magnifico trono. Cosa mai potrò dire per spiegare qualche poco la magnificenza, la maestà, la santità che conoscevo in Dio, per parte di intima intelligenza, mentre niente di preciso vidi, perché candido velo, unito a luce chiarissima m’impediva di vedere. Niente vedevo, e molto comprendevo per parte di interna cognizione, quali furono gli affetti del mio cuore non so spiegarlo. Ero tutta intenta a rendere grazie al mio Dio, quando imperiosa voce così mi parlò: «In questo giorno sei confermata in grazia. Favore tanto segnalato ti viene compartito per il valevole patrocinio di questa eccelsa Madre».
4.1. Che cosa voleva dire?
Tornata in me, mentre ero alienata dai sensi, pensando a quando mi era seguito, non sapevo cosa volesse dire quella parola: «confermata in grazia». Credetti che mi fossero stati rimessi i peccati commessi. Non avevo coraggio di manifestarlo al confessore, perché ne avevo sommo timore, perché questo ministro di Dio non si era avveduto del mio timido carattere, per esser poco tempo che assisteva la povera anima mia; mi teneva in qualche sorta di soggezione, motivo per cui poco e niente potevo manifestargli quanto passava nel mio spirito.
Ero tutta contenta, credendo che la parola «confermata in grazia» volesse significare che mi erano stati perdonati tutti i peccati.
Dopo qualche tempo che mi era seguito il suddetto fatto, discorrendo, con la mia sorella monaca, di un gran servo di Dio, mi disse che questo non andava più soggetto alle sue miserie, per essere il suddetto confermato in grazia.
A queste parole della mia sorella, intesi balzarmi il cuore nel petto, restai piena di confusione, mentre la suddetta mi fece credere che questa grazia fosse molto singolare. Io, benché a questo parlare della mia sorella, restassi molto sorpresa, nulla detti a vedere di quanto passava in me, ma con santa indifferenza seppi occultare la grande ammirazione che cagionò in me il suo parlare. Nonostante l’interna ammirazione niente mostrai nell’esteriore, ma con mezzo termine proporziona mi divisi dalla suddetta, per il timore che avveduta non si fosse di quanto passava nel mio spirito, perché fui sorpresa da interno fuoco, e questo appariva nel mio volto.
Mi ritirai in luogo appartato, e incominciai a pensare come potesse essere vero quanto mi era accaduto. Andavo dicendo tra me: «E come sarà possibile che sia vero quanto mi è seguito? Io sono tanto scellerata! La mia sorella ha detto che questa grazia il Signore la concede alle anime perfette. Sicuramente questa è una illusione!».
Non sapendo cosa decidere, non avevo coraggio di manifestarlo al confessore. In questo tempo il suddetto fu eletto vescovo, e per conseguenza abbandonò il confessionario. Per sua bontà pensò lasciarmi ad un buon sacerdote, da lui creduto molto pratico intorno alla direzione di spirito. Questo era un giovanetto di santi costumi, ma poco e niente pratico di guidare anime. Pensai dunque di andare dal padre gesuita, mio passato confessore, del quale feci menzione nei fogli passati, gli raccontai il fatto suddetto.
« Padre », gli dissi, «per carità, mi dica se è illusione del demonio. Come è possibile che io abbia ricevuto questa grazia?».
« Figlia », rispose il suddetto, «non posso dubitare che quanto mi avete manifestato non sia grazia del Signore. Figlia, è molto tempo che il Signore vi ha fatto questa grazia. Sono quattro anni che vi confessate da me, e non ho mai trovato materia di assoluzione. La grazia che voi avete ricevuto è di saperlo, a molte anime il Signore concede questa grazia, ma a poche lo manifesta. Il Signore si è degnato manifestarlo a voi, ma, batate bene di occultare la grazia ricevuta, non ne parlate con anima vivente».
4.2. L’obbedire mi fu di molta pena
Assicurata della grazia dal buon padre gesuita, restai quieta e contenta. Credetti bene di obbedire il buon Vescovo, proseguii ad andare da quel confessore che mi aveva lasciato. Il suddetto mi servì di molto esercizio di pazienza e di somma sofferenza; quando gli rendevo conto del mio spirito ne formava le più alte meraviglie, e senza proferir parola su quanto gli avevo detto, mi dava la benedizione, e mi diceva: «Vi aspetto un altro giorno». In altre occasioni mi diceva: «Non voglio che le mie penitenti sollevino nelle orazioni le loro menti a Dio. Ho piacere che camminino terra terra, perciò vi comando che nelle orazioni altro non meditate che la morte, il giudizio, l’inferno, e non andate tanto sollevando lo spirito».
L’obbedire mi fu di molta pena, perché non era in mio potere fare ciò. Il Signore, il più delle volte, furtivamente mi rapiva lo spirito, per parte di un tocco interno. Ero sollevata a contemplare le divine perfezioni. A queste cognizioni intellettuali si accendeva la volontà di amore ardente, che mi traeva fuori di me stessa, non ero capace di altro che andare appresso al mio Signore, che fortemente mi tirava. Terminata la divina illustrazione, mi ricordavo di quanto il confessore mi aveva comandato. Tutta mortificata mi volgevo al Signore, mostrandogli il dubbio che avevo di avere disubbidito; ma il mio Signore mi faceva chiaramente conoscere che non avevo su di ciò colpa alcuna, ma che la creatura non può resistere al Creatore.
4.3. Un confessore sbagliato
Sicché le orazioni invece di essermi di consolazione mi erano di pene; andavo risolutissima di non mi partire dalle meditazioni impostemi dal mio confessore; procuravo di ritenere lo spirito racchiuso quanto mai potevo, macché, il più delle volte non avevo terminato l’orazione preparatoria, che il mio Dio s’impadroniva del mio spirito e mi dava cognizioni ben grandi, riguardanti le sue divine perfezioni.
A queste cognizioni la povera anima mia s’infiammava di carità, per mezzo della carità viepiù s’inoltrava a contemplare le divine perfezioni, ma appena mi avvedevo di essermi tanto inoltrata, procuravo per quanto potevo di ritirare lo spirito da questo gran bene, per non mancare all’obbedienza. Macché, appena avevo ritirato lo spirito, che tornava nuovamente Dio a sollevarlo.
Queste orazioni mi erano di afflizione e di pene; tutte le volte che il Signore si degnava di favorirmi, piangevo dirottamente, per timore di aver mancato all’obbedienza. Quando il Signore non era tanto lesto di rapirmi lo spirito, mi mettevo a considerare le pene dell’inferno, e procuravo con tutto lo studio di eccitare in me orrore e spavento, acciò non si fosse sollevato lo spirito, macché! trovava ancora in questa tetra meditazione la maniera di sollevarsi a Dio, considerando, invece della rigorosa giustizia, l’amore di un Dio amante. «Mio Dio», andava dicendo fra sé la povera anima mia, «tanto vi preme il beneficarmi, che mi intimorite con l’inferno! O amore grande ed infinito, tanto vi compiacete di possedermi, che se non vi voglio amare per amore vi contentate che vi ami per il timore dell’inferno».
A queste ed altre simili riflessioni si accendeva il mio spirito di amore tanto grande verso il suo Dio che, trasportata dalla fiumana della carità, la violenza dello spirito violentava il corpo, sicché ora cadeva sul suolo come morto, ora si dibatteva con moti convulsi, ora mi pareva che il cuore si volesse dividere in mille pezzi, parevami volesse balzare dal seno; troppo procuravo di far resistenza alla grazia di Dio per obbedire il mio confessore, ma la forza maggiore vinceva la minore.
Molto era grande la pena che soffrivo tutte le volte che mi dovevo presentare al suddetto, perché le sue parole non altro servivano che per angustiarmi. In undici mesi circa che fui diretta dal suddetto, tutte le volte che mi parlava aveva nuove idee sopra di me, diverse volte, senza sapere né che né come, mi leva la santa Comunione. Permette Dio che i direttori prendano qualche equivoco verso le anime che dirigono, ma il suddetto, senza sua colpa, trovava tutte le maniere di affliggermi quotidianamente, nonostante questo forte urto, mai perdetti la pace del cuore, ma il mio spirito era sempre tranquillo, e, tutta abbandonata in Dio, passai gli undici mesi.
Per giuste cagioni il suddetto dovette abbandonare il confessionario. Il Signore mi diede a conoscere che dovevo trovare altro direttore; fintanto che non fui soggetta al suddetto direttore mal pratico, credetti sempre che fosse comune a tutti l’essere così favorita da Dio nelle orazioni, sicché non sapevo qual fosse il motivo delle sue ammirazioni.
Finalmente una mattina mi disse: «Ditemi un poco, chi credete di esser voi, che pretendete di stare in confronto di una santa Caterina, di una santa Geltrude, di una santa Maria Maddalena de’Pazzi? Eh, ci vuole altro! eh vi pare a voi cosa conveniente di tanto innalzare lo spirito nelle orazioni? Lasciate fare alle anime contemplative queste sorte di orazioni non hanno tanta comunicazione, come dunque sarà possibile di credere che a voi tanto vi sia permesso da Dio il potervi inoltrare, se, come dissi, alle anime contemplative, dopo rigorose e austere penitenze, non a tutte permesso di tanto inoltrarsi, come sarà permesso a voi di tanto inoltrarvi?».
Prosegue a dire: «Un’altra cosa mi fa molto specie in voi, mi dite che non soffrite alcuna pena dallo stimolo della carne, io più rifletto al vostro spirito e meno ne capisco!».
Le parole di questo ministro di Dio mi misero in somma pena, pensando che avesse molto ben ragione di farmi un tal rimprovero, mi detti a credere di essere illusa e dal demonio ingannata. Secondo il mio solito, ricorsi al mio Dio con molte lacrime, pregandolo a farmi conoscere se la povera anima mia era ingannata dal demonio. Il Signore si degnò assicurarmi che non era opera del demonio, ma opera della sua grazia, mi diede a conoscere ancora, come dissi di sopra, che mi fossi trovata altra guida, altro direttore. Ricevuto il suddetto avviso, mi raccomandai caldamente al Signore per fare una buona scelta.
4.4. Un altro confessore
La mattina che ricorreva la festa del glorioso apostolo san Giacomo del 1806, ebbi particolare ispirazione di portarmi in una certa chiesa, e presentarmi a un tale ministro di Dio, senza sapere chi fosse. Vado dunque, e come piacque a Dio, trovai un uomo di santa vita, molto pratico, mi accolse con molta carità. Molte furono le interrogazioni che mi fece riguardo al mio spirito, ma tutto trovò conforme allo Spirito del Signore. Il suddetto mi dette coraggio e licenza di andare a Dio tutte le volte che si degnava chiamarmi, anzi mi disse di più, che nelle orazioni avessi pure liberamente sollevato lo spirito e fossi andata liberamente dove Dio si degnava condurmi, che mi fossi slanciata liberamente verso il mio Signore.
Alle parole dell’accennato direttore, il mio spirito andava a briglia sciolta verso il suo Signore, tutte le volte che a sé chiamava per mezzo di interne illustrazioni, oh, come la povera anima mia stendeva le sue ali, e aspettando se ne stava di essere sollevata dal benefico vento della carità dell’eterno Dio! E il mio buon Dio, non curando la sua grandezza, si degnava di abbassarsi per favorire la mia bassezza. Oh, come facevamo a gara lui a sollevarmi e io ad umiliarmi! Più mi umiliavo e il mio Dio più mi innalzava.
La contemplazione era il frequente pascolo che Dio si degnava dare alla povera anima mia per nutrirla quotidianamente, e così con questo prezioso cibo si sosteneva senza gustare di quelli tanto diversi cibi che è solito dare il mondo ingannatore. Trovavo l’anima mia sempre pronta a sostenere ogni qualunque battaglia che le veniva mossa dai suoi spietati nemici. Tutti ad un tratto coraggiosamente li affrontavo con la grazia di Dio.
4.5. Con Anna Maria Taigi alla Scala Santa
Erano passati già sei mesi che ero soggetta a questo buon direttore, quando al Signore piacque chiamare agli eterni riposi il mio buon padre. Il dolore della sua perdita fu mitigato dalla preziosa sua morte, che fu il 29 gennaio del 1807.
Molto mi affaticavo di suffragare la benedetta sua anima, non solo con le mie povere orazioni, ma con farlo raccomandare da diverse anime buone. In questa occasione ebbi la sorte di conoscere una penitente del padre Ferdinando trinitario scalzo di San Carlo alle Quattro Fontane. Mi raccomandai a questa buona serva di Dio, acciò facesse qualche suffragio al defunto mio padre. La suddetta mi disse che molto giovevole sarebbe stato il visitare per il suddetto la Scala Santa. Mi portai dunque con la suddetta serva di Dio alla Scala Santa un giorno di venerdì di marzo.
4.6. Il padre Ferdinando
Il padre Ferdinando, confessore della suddetta, volle parlare con me; per cose riguardanti questa sua penitente. In questo tempo mi trovavo senza condirettore, per essere il suddetto andato fuori a predicare. Erano dei giorni che avevo bisogno per mia quiete di manifestare una cosa riguardante il mio spirito. Credetti bene fare una confidenza con questo buon padre trinitario di quanto mi accadeva nelle orazioni, nel tempo che non vi era il mio direttore. La cosa era che quando m’inoltravo molto nelle orazioni, sentivo una voce interna che mi parlava con tanta chiarezza, e il mio spirito si tratteneva con questa a parlare con dolcezza di cose molto alte, appartenenti all’infinito amore che Dio porta alla povera anima mia. Questa voce l’ammaestrava come si doveva portare verso il suo Dio per potergli piacere, la cosa era tanto chiara e sensibile, che io ne restavo molto intimorita, dubitando di qualche illusione, credetti bene manifestarlo al suddetto padre, il quale mi dette molti avvertimenti riguardo alla maniera che doveva portarmi in questi casi. Mi disse ancora che tutte le volte che mi fosse occorso qualche cosa, fin tanto che tornato non fosse il mio direttore, mi averebbe fatto la carità di assistermi.
La sua caritativa esibizione riempì il mio cuore di gratitudine e di filiale confidenza; sicché, tutto il tempo che il mio direttore stette fuori, mi prevalsi della bontà del lodato padre. Molto giovevoli erano al mio spirito le sue parole; molto spesso andavo a trovarlo, benché il viaggio fosse ben lungo, essendo la mia abitazione vicina a piazza di Pietra, era tanta la dolcezza di spirito che Dio mi faceva provare in quel lungo viaggio, che non curando né pioggia né vento, mi portavo là con tanta soavità di spirito che, nell’entrare in quel sacro tempio, mi pareva di entrare in un paradiso.
Le parole del lodato padre facevano in me cose molto mirabili; le sue parole avevano tanta efficacia che erano sufficienti per unirmi con Dio. Oh, quante volte in confessionario medesimo il Signore si degnava compartirmi i suoi favori, facendomi gustare i dolci effetti della sua misericordia!
Diverse volte mi avvedevo che il Signore rendeva partecipe il lodato padre di quella grazia che Dio si degnava comunicare alla povera anima mia, con farli provare in quei momenti una particolare dolcezza di spirito.
4.7. La grazia dei santi Esercizi
La seconda domenica dopo Pasqua tornò in Roma il mio direttore, ringraziai il buon padre Ferdinando della carità usatami, e piena di filiale amore mi congedai da lui; ma il mio cuore aveva ricevuto dal suddetto padre una particolare impressione, che per essere opera di Dio non era in mio potere poterlo scancellare dal mio cuore. Il mio spirito era sempre a lui rivolto, quando potevo ottenere dal mio direttore la licenza di andarlo a trovare, il mio spirito era sopraffatto da interna dolcezza, e sentiva che forza superiore a lui mi conduceva.
Tra le molte grazie che Dio mi compartì in questo tempo, una delle maggiori fu il fare i santi esercizi al Santissimo Bambino Gesù. Grazia veramente grande, per le grandi difficoltà che dovetti incontrare per ottenere dai parenti la licenza. Ma, come a Dio piacque, mi fu dai suddetti accordata la licenza. Il giorno dunque dell’Ascensione del Signore del 1807 mi portai al venerabile monastero del Santissimo Bambino Gesù a fare i santi esercizi. E come potrò io manifestare tutte le grazie, le misericordie, i favori che mi compartì il Signore in quei giorni di ritiro?
Ma per non mancare all’obbedienza, con l’aiuto di Dio qualche cosa dirò. La vigilia dell’Ascensione del Signore, dopo la santa Comunione fui sollevata da alta contemplazione, dove il Signore mi fece intendere che voleva sollevare l’anima mia a un grado molto alto di perfezione, e fin da quel momento mi fece passare a maggior grado. In questi termini fu invitata la povera anima mia dal suo diletto: «Sorgi», mi disse, «sorgi, diletta figlia, sciogli dal collo tuo le catene, non è più tempo di schiavitù!».
A queste parole l’anima mia fu sciolta da certi naturali legami che la nostra misera umanità va soggetta, e che le anime che attendono alla perfezione ne sono sciolte con la lunghezza del tempo, e con la pratica delle sode virtù; ma il Signore si degnò usare verso di me questo tratto di sua infinita misericordia, e mi donò per grazia quello che in nessun conto mi aspettava per merito.
Ecco come la povera anima ascese ad un grado di maggior perfezione, senza alcun merito proprio, ma solo per parte di particolar predilezione di quel Dio che mi creò per amarmi, nonostante la mia ingratitudine.
Al momento sperimentai i buoni effetti della grazia, il mio intelletto fu ripieno di sapienza, per mezzo di questo dono il mio spirito si sollevava a Dio, e da Dio ne riportava nuove grazie.
4.8. Una preziosa corona
Ho dimenticato di scrivere un fatto che mi seguì il giorno 19 nel mese di marzo del 1807, nel tempo che era fuori il mio direttore e che in mancanza del suddetto mi assisteva il reverendo padre Ferdinando, come si è detto nei passati fogli.
Il giorno che ricorreva la festa del glorioso san Giuseppe, nella santa Comunione, ero tutta intenta a piangere i miei peccati per trovarmi colpevole di impazienza, improvvisamente fu sopito il mio spirito e sopraffatto da intima quiete. Mi parve in questo tempo di essere condotta da mano invisibile sopra di un monte, dove trovai molte anime che formavano d’intorno all’umanità santissima di Gesù Cristo nobile corona. Si arrestò a questa vista il mio povero spirito, riconoscendosi indegno di inoltrarsi, per riconoscere in quelle anime che quivi erano molta santità e perfezione.
Piena di lacrime mi rivolsi a loro, acciò si fossero degnate ottenermi dall’amabile Signore il perdono dei miei peccati, ed intanto, umiliandomi fino al profondo del mio nulla, mi disfacevo in lacrime di contrizione, desideravo ottenere per grazia di esser serva di quelle anime che quivi erano.
Oh, quanto mai erano belle, le vedevo tutte vestite di bianco, trattar familiarmente con Gesù Cristo. Oh, qual consolazione, dicevo tra me, sarebbe poter servire queste anime tanto sante! Ma una indegna peccatrice come sono io non merita tanto onore». Rivolta all’amato Signore, piena di fiducia, dissi: «Gesù mio, abbiate pietà di me, misera peccatrice!».
Ed intanto, discostandomi da quel sacro monte, per rispetto e riverenza, piangendo la mia grande ingratitudine, quando l’amoroso Gesù, pieno di santo affetto, a me rivolto mi disse: «Mia diletta figlia, ti arresta», e, comandato a quelle anime che attorno gli facevano corona, che liberamente mi facessero passare, a me rivolto soggiunse: «Amica mia, appressati a me senza timore. Voglio coronare il tuo capo di pregiata corona».
A questo invito qual contrasto provò il mio cuore di santi affetti, la propria cognizione non mi permetteva di accettare liberamente gli amorosi e replicati inviti del mio Signore. «E come ardirò io», dicevo, «avvicinarmi tanto alla stessa santità? Queste anime giustamente mi rimprovereranno il mio ardire! Ma come potrò resistere a invito tanto parziale che mi fa il mio Signore?».
Ma intanto l’amato Signore, osservando il santo contrasto che facevano i diversi affetti nel mio cuore, si compiaceva di vedermi per amor suo così patire, tornò nuovamente ad invitarmi con maggior efficacia, l’amore di compiacerlo superò il timore di disonorarlo; mi avvicino a lui qual figlia amante al caro padre suo, mi prostro ai suoi piedi, piena di; rispetto e riverenza dicendo: «Domine, quid me vis facere? Fiat voluntas tua!».
Appena ebbi proferito le suddette parole, si degnò con le sue preziose mani calcare sopra il mio capo preziosa corona, poi fece mettere in bell’ordine le suddette anime, mi comandò di sedere ad una bella sedia che quivi era, e comandò alle suddette anime che mi avessero prestato obbedienza.
Queste, piene di rispetto, si degnarono soggettarsi a me, due per due vennero a prestarmi ossequiosa obbedienza; per non più dilungarmi non sto qui a ridire quale e quanta fosse l’umiliazione che cagionò al mio povero spirito questo rispettoso ossequio. Fu tale e tanto il lume di propria cognizione che Dio donò all’anima mia, che credetti veramente di restare annientata nel proprio nulla, un profluvio di lacrime soffocavano il mio cuore, e piena di rossore e confusione nel vedermi d’intorno anime sì care, che non alzavo neppure gli occhi per rimirarle, conoscendomi affatto indegna di loro.
4.9. Otto giorni di Esercizi
Proseguo a raccontare come passai gli otto giorni degli esercizi al Santissimo Bambino Gesù. Il giorno dell’Ascensione del Signore del 1807 mi portai al venerabile monastero del Santissimo Bambino Gesù, in quei santi giorni mi compartì il Signore una unzione di spirito molto particolare, mi donò un raccoglimento molto segnalato, posso dire in qualche maniera che il mio spirito fece la sua dimora non in terra ma in cielo, per quanto è permesso ad un’anima viatrice. Godevo una familiarità molto particolare con il buon Dio, che a tutte le ore mi degnava della sua presenza, godevo ancora della compagnia dei santi Angeli, che commessi venivano dalla bontà di Dio, per mezzo dei quali mi inviava le sue grazie, i sentimenti del corpo poco e niente mi assistevano, per la continua attrazione della grazia che a sé riteneva lo spirito. Nella santa Comunione poi in tutti quei giorni godetti delle particolari comunicazioni che mi tenevano dopo la santa Comunione sopita o per meglio dire alienata dai sensi tre o quattro ore; in guisa che ero incapace di alcuna sensazione.
Dovetti soffrire il rossore di essere da quelle religiose assistenti riconvenuta, perché la mattina mancavo alla orazione comune alle altre esercitanti, all’ora dell’orazione le buone religiose mi cercavano molto, ma non mi trovavano, perché, fatta la santa Comunione, mi ritiravo in un angolo dove non ero osservata, quando mi avvidi che la cosa era un poco di ammirazione, presi il partito di farmi avvisare, insegnai il luogo dove mi trattenevo dopo la santa Comunione ad una esercinante, perché mi avesse avvisato quando era ora di andare all’orazione.
Il dopo pranzo mi ritiravo nella mia camera, servendomi della scusa che avevo bisogno di riposare, e così mi dispensavo di stare con le altre all’ora di ricreazione; nella solitudine della mia camera davo qualche libertà al represso mio spirito, acciò andasse liberamente al suo Dio, che fortemente e continuamente lo tirava. Data la libertà allo spirito, questo senza ritegno tutto ad un tratto si slanciava rapidamente verso l’infinito suo bene, che gli mostrava l’infinito suo amore per mezzo di intellettuali cognizioni, tanto s’inoltrava lo spirito, che veniva a privare di forza il corpo, di maniera che cadeva sul suolo, dove passavo circa due ore, godendo di un bene molto grande che non so manifestare.
Benché mi studiassi di soffocare la grazia, perché nessuno avveduto si fosse dei favori che mi compartiva Dio, indarno mi affaticai l’ultimo giorno nella Comunione generale, perché, quando fui vicino a comunicarmi, il Signore mi tirava con tanto impeto, che, nonostante la forte violenza che facevo a me stessa per occultare la grazia, il mio corpo balzava a viva forza, sicché ricevuta la sacra particola, caddi stramazzone per terra. Le buone religiose assistenti accorsero subito ad aiutarmi, supponendo male naturale, procurarono alla meglio che poterono di farmi rinvenire, mi somministrarono dell’acqua fresca, ma non la potei bere, perché non avevo tatto alla bocca, avevo perduto ogni sensazione, ciò nonostante alla meglio che mi fu possibile mi misi a sedere, senza mostrare segno alcuno di straordinario, mostrando somma indifferenza dell’accaduto; ma non vedevo l’ora di andare alla mia casa, per il rossore e la confusione che mi cagionava il ricordarmi il fatto seguitomi. Quei pochi momenti che potevo star sola senza essere osservata, piangevo dirottamente e mi lagnavo con il mio buon Dio di avermi così trattato alla presenza altrui.
(dal Diario di Elisabetta Canori Mora)