Nel mese di luglio del 1807, dopo i santi esercizi spirituali, il Signore mi visitò con una grave tribolazione, che alla meglio che posso mi accingo a raccontare, per obbedire a vostra paternità.
Il padre e la madre e sorelle del mio consorte credettero bene d’impedire al suddetto la cattiva amicizia che aveva con una donna di poco buon nome, come nei passati fogli si accennò. Pensarono dunque a questo oggetto di farne un ricorso ai superiori, vollero da me il consenso, senza del quale il loro ricorso sarebbe stato di nessun valore. Mi consigliai con il mio direttore, e dopo essermi raccomandata al Signore, detti a voce al padre e alla madre il mio consenso.
5.1. Mio marito in castigo
Fatto il ricorso, i superiori conobbero la ragione, procedettero contro il suddetto mio consorte e la sua amica. Per ordine dell’eminentissimo cardinal vicario fu il suddetto condotto ai Santi Giovanni e Paolo, consegnato ai Padri Passionisti con ordine di ritenerlo in castigo fino a nuovo ordine.
Questi buoni padri gli dettero gli esercizi spirituali, e procurarono di fargli conoscere le sue mancanze; ma invece di approfittarsi delle ammonizioni, ogni giorno più si ostinava nel sostenere la sua cattiva amicizia. Si infierì crudelmente contro di me, credendomi autore del suddetto ricorso. Mi scriveva lettere fulminative piene di minacce. Intanto gli si andava formando il processo, e così risoluto dai superiori che il suddetto fosse tornato alla sua casa quante volte avesse dopo i santi esercizi avesse dato riprova del suo ravvedimento; ma che se fosse tornato a trattare la suddetta donna, la sua pena sarebbe stata di essere ritenuta in castello tutto il tempo che sarebbe piaciuto al signor cardinale vicario. La donna poi, come più rea per altre mancanze, se fosse tornata a trattare il suddetto, condannata a san Michele per cinque anni.
Passati quindici giorni il suddetto scrisse una lettera di sottomissione al padre e alla madre. Il padre non credendo alle sue parole, ma ritenendo a memoria le ingiurie e le minacce che nei giorni passati aveva a me fatto per mezzo di una sua lettera, come già dissi, voleva assolutamente dai Santi Giovanni e Paolo farlo passare in Castello, ma la madre si interpose presso il padre, e pregandolo a non recare a lei questo disgusto, avesse perdonato il figlio. Mi chiamavano e mi comunicavano i loro diversi sentimenti, io con la grazia di Dio, che molto più del solito invocavo, mi raccomandavo per non sbagliare, mi mostravo indifferente e obbediente ai loro voleri. Il suddetto ogni giorno più manifestava il suo malanimo contro di me. Le sorelle del suddetto, dubitando di vedere qualche fatto micidiale, mi consigliavano di andare in casa terza e non espormi agli insulti del loro fratello, consigliavano ancora il padre a non farlo tornare a casa. Finalmente l’afflitta madre vinse tutti, sicché si risolvette di comun consenso di farlo tornare a casa il giorno 18 del medesimo mese di luglio, dopo averlo per 18 giorni tenuto in Santi Giovanni e Paolo, come si disse di sopra.
5.2. Diverse volte in pericolo di morire
Tornò in casa qual leone infierito, per vedersi privo della sua amica, la privazione di questa amicizia non ad altro servì che inferocirlo contro di me, sicché molto dovetti soffrire da quest’uomo forsennato. Finalmente con maltratti e con minacce, prese il partito di obbligarmi a dargli in scritto il consenso, per tornare liberamente a trattare la sua amica, ma questo non potevo farlo senza offendere Dio. Mi consigliai con il mio direttore, il quale mi disse che mi fossi piuttosto contentata di morire per le sue mani che dare questo consenso. Questo mi bastò, perché il mio spirito con la grazia di Dio, divenisse forte qual scoglio immobile alle furiose onde dell’agitato mare, con la grazia di Dio facevo io sola margine a questo uomo imbestialito, negando a costo della mia propria vita al suddetto il consenso. Sicché diverse volte corsi il pericolo di morire per le sue mani; ma particolarmente una sera che tornò a casa più del solito sdegnato e pieno di furore, risoluto di darmi la morte se non davo il consenso, con sottoscrivere una carta per giustificare presso i superiori la sua amicizia. Buono per me che erano buone due ore che mi trattenevo in orazioni, per mezzo delle quali Dio mi comunicò una forza di dare la vita piuttosto che offendere il mio Signore.
Il suddetto, dopo essersi servito delle ragioni per convincermi; mostrandomi che non ad altro fine voleva fare la mia sottoscrizione che per rendere la riputazione che con il ricorso si era tolto a questa donna; giurando di non più accostarsi alla casa di questa; ma io, nonostante le sue promesse, con la grazia di Dio, non mi feci vincere, ma valorosamente offrii la mia vita piuttosto che offendere Dio.
5.3. Offrii a Dio tutto il mio sangue
Nel vedermi così risoluta, divenne più fiero di un cane arrabbiato; mi si avventò addosso per uccidermi. La madre, allo strepito delle sue minacce, accorse per darmi aiuto, ma il mio spirito intrepido senza titolare invece di fuggire, mi inginocchiai avanti di lui, e pregando la madre, che lo riteneva, che avesse lasciato sfogare il suo sdegno contro di me. In questo tempo offrii al mio Dio tutto il mio sangue, per dimostrargli il mio amore, provando nel mio cuore gli affetti più vivi della sua carità, stavo tutta ansiosa aspettando il colpo, per dare al mio buon Dio un attestato dell’amor mio; ma quando speravo di trovarmi immersa nel proprio sangue, mi avvidi che era al suddetto mancata la forza di colpire il mio cuore, che con santo ardire stava aspettando il dolce momento di offrire il mio sangue. Ma il suddetto fu da forza superiore impossibilitato di mettere in esecuzione il suo disegno, confessando che forza superiore arrestò il suo braccio, ma pieno di timore, pallido nel volto, si adagiò sopra una sedia, perché gli era ad un tratto mancata la forza. Nel vedersi privo di forza, prese il partito di chiedermi perdono, confessando il grave torto che mi aveva fatto, ma questo proposito non fu durevole neppure un quarto d’ora, perché appena Dio gli restituì la primiera forza, che tornò di bel nuovo ad insultarmi, e preso dalla disperazione se ne partì, dicendo che per mia cagione si sarebbe da sé data la morte.
La madre, sentendo la espressione del figlio, vedendolo partire molto infuriato, si rivolse contro di me, facendomi dei rimproveri, per non aver condisceso alle sue voglie, ma il mio spirito era incapace di ogni apprensione, perché si trovava tutto immerso in Dio, godendo una mirabile unione con lui, che, sebbene in quei momenti mi avessero fatto in mille pezzi, non ero capace di risentimento.
Passai tutto il mese di agosto in questa fiera persecuzione; diversi erano i progetti che in questa occasione mi facevano i miei parenti: parte di loro mi consigliavano di ritirarmi in un monastero, mia madre voleva che fossi tornata in casa sua, il mio direttore mi consigliava di sciogliere il matrimonio, mostrandomi le forti ragioni che mi assistevano, in mezzo a tutti queste disparità di pareri, il mio spirito riposava dolcemente nelle braccia del mio Signore, tenendo per certo che l’affare sarebbe andato secondo la sua santissima volontà, di niente avevo paura, ai miei parenti recava molto meraviglia come io avessi tanto spirito di star sola di notte in camera con un uomo tanto imbestialito, senza paura di restar morta per le sue mani, ma questo spirito non a me, ma a Dio si doveva attribuire, che si degnava di trionfare della mia miseria, mentre parte della notte la passavo in ginocchio, occupata in alta contemplazione, e quando la necessità del corpo mi obbligava a prendere un poco di riposo, ero in quel tempo favorita da un raggio di luce, che mi circondava da ogni intorno e mi rendeva sicura il riposo.
Nella santa Comunione poi il Signore si degnava favorirmi in modo speciale, in questo tempo più volte fui visitata dal Signore, che sotto la forma di vago fanciullo, mi appariva consolandomi con farmi provare i dolci effetti della sua carità; sicché in mezzo alla tribolazione godevo nel mio cuore un paradiso di delizie e di dolcezza.
5.4. Dio vuole salvare il consorte e le figlie per mezzo mio
In questo tempo il suddetto si adoperò perché fosse bastato il consenso del suo padre e madre, perché i superiori gli avessero accordato di liberamente tornare alla sua amica. Il mio direttore mi consigliò di non mostrarmi per intesa di questo, che bastava per mia quiete di coscienza il non avergli dato il consenso; ma il mio direttore mi consigliava di separarmi dal consorte, con esporre le mie forti ragioni ai superiori. A questo oggetto mi comandò di raccomandarmi al Signore acciò degnato si fosse mostrarmi la sua volontà. Il Signore, mi fece conoscere che non dovevo abbandonare queste tre anime, cioè le due figlie e il consorte, mentre per mezzo mio le voleva salvare.
Dopo questa notizia, dissi al mio direttore; «Le basti così. Deponga ogni pensiero riguardo a questa separazione di matrimonio, perché io antepongo la salvezza di queste tre anime al mio profitto spirituale, perché di maggior gloria di Dio, il cooperare alla salvezza di queste tre anime non mi impedisce la perfezione. So bene che lei mi consiglia in mio vantaggio, mentre crede che nella quiete possa il mio spirito molto avanzarsi nella perfezione, ma io le dico che se Dio vuole, non mi saranno questi di inciampo, anzi mi aiuteranno ad esercitarmi nella virtù; ma per schivare ogni attacco che a questi potessi avere, fin da questo momento rinunzio ad ogni affetto sensibile che possa mai avere il mio cuore verso di loro, solo intendo di amarli per pura carità e cercare per questi tutti i vantaggi per la loro eterna salvezza, a costo di ogni mio incomodo».
Parlavo con tanta franchezza, perché chiaramente il Signore mi aveva fatto intendere che questa era la sua volontà.
(dal Diario di Elisabetta Canori Mora)