“D’amore e di altri disastri”, “Il prezzo dell’amore”, “Quando finisce un amore”, “Il laboratorio dell’amore”, “Quando l’amore è un’ossessione” (è la recensione sul quotidiano “La Repubblica” di un libro di Natalia Aspesi: Sentimental, diario italiano di amore e disamore, in cui “si parla soprattutto di sesso”) o, ancora, “Il laboratorio dell’amore” (“The love lab” nello sbrigativo linguaggio texano) che è una specie di consultorio per coppie giunte al limite del divorzio o del femminicidio in un Paese, gli Usa, dove ogni trenta secondi una coppia divorzia. E ancora: “L’amore moderno instabile e narciso… è l’unico spazio in cui ciascuno può esprimere se stesso e la sua libertà al di fuori di ogni regola… L’amore è diventato un assoluto, nell’accezione latina di solutus ab, sciolto da tutto, persino dal vincolo che in amore lega due persone che si sono innamorate”.
Lo scriveva qualche settimana fa il laicissimo Umberto Galimberti, filosofo, psicoanalista, antropologo culturale e docente universitario a Ca’ Foscari, rispondendo a una lettrice su uno dei tanti magazine in circolazione e motivando la sua opinione: “Abbiamo confinato il sentimento nella passione che, come dice la parola stessa, ci vede passivi di fronte alla fascinazione dell’altro”, perché “ciascuno cerca nell’altro la gratificazione della propria autorealizzazione” e infine perché “abbiamo provato nell’amore l’unico spazio per celebrare la nostra libertà quanto mai facilmente revocabile”. Su un’altra rivista ho trovato questa definizione: l’amore “è la valutazione, forse anche un po’ cinica, narcisistica: a che cosa serve lui/lei in quella fase, in quell’estate, in quell’autunno? Non ci sono più divieti: è pura e semplice ricerca della felicità”.
Tutti questi brevi testi appena riportati sono un piccolo saggio di quanto si pubblica sui quotidiani e sulle riviste più diffusi in Italia e chi legge queste note potrebbe allungarne l’elenco a volontà. Per l’evolversi della cultura (non oso usare la parola civiltà) le parole non sono più verità, non corrispondono più alla realtà. Il fatto è che “amore” e “vita” – parole tra loro legate strettamente l’una all’altra e tra le più belle della nostra lingua non soltanto per il loro significato – sono a rischio di finire nel “Dizionario dell’Antilingua”1, cioè delle parole dette per non dire quello che si ha paura di dire (esempi classici: Interruzione volontaria della gravidanza invece di aborto oppure prodotto del concepimento invece di figlio o bambino, compagna o compagno invece di amante…). Una volta lo chiamavano libero amore (l’aggettivo era squalificante), oggi lo vogliono irreggimentare nelle scartoffie delle anagrafi municipali. Ma – era la domanda della lettrice a Galimberti – che cos’è, che cosa vuol dire la parola amore? In Antilingua il suo significato è “sesso” (“Facciamo l’amore”) o, nella migliore delle ipotesi, “passione”, che quando sono prevalenti, cioè quando il loro significato è ristretto a questi due ultimi lemmi, vanno considerati come le malattie dell’amore vero. Oggi buona parte dei giovani al posto di cuore e ragione usano altre circonlocuzioni del proprio cervello più facilmente accessibili o soltanto altri organi del proprio corpo. Invece l’amore vero, cioè razionale o della civiltà cristiana è quello che ha descritto Paola Ricci Sindoni : “Offerta radicale di sé, avvento senza rimpianto, accoglienza radicale dell’altro […] Un legame fra l’io e il tu amato […] che va accolto con le sue speranze esitanti e timorose […] che lo fanno di nuovo essere”. Oppure quello di cui parlava san Giovanni della Croce: “Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore”. Sarà questo il seguito della nostra riflessione. Mentre per quanto riguarda la “vita” rimando alle mie note su Esistenza e vita apparse sul precedente numero di questi Quaderni, qui mi soffermerò soprattutto sull’abuso della parola “Amore”.
A questo punto, però, e prima di andare oltre occorre chiarire il significato e gli effetti di “Antilingua” e il drammatico compito che a questa antiparola è affidato. Per farlo occorrono una premessa e una costatazione. Quest’ultima: l’Antilingua si sta trasformando da un imbroglio assai maligno in una vera “cultura”, i cui effetti potrebbero essere una vera tragedia comunicativa. Non si divideranno né, tanto meno, si schiereranno per questo l’uno contro l’altro i popoli come accadde alla Torre di Babele, ma morirà ogni norma morale per lasciare il posto a un’affermazione trionfale di quel “principio di autodeterminazione” che fonda l’etica individuale oggi di moda: a ciascuno la sua morale e un ritorno di massa alla tragedia dei Progenitori, quando decisero di “diventare come Dio”, cioè di reclamare il diritto di stabilire in proprio che cosa è bene e che cosa male.
Del resto questo risultato è in parte già visibile all’orizzonte per quanto riguarda la vita: il “diritto” di abortire, di morire, l’eutanasia (anche per i bambini), le dichiarazioni anticipate di volontà, il suicidio assistito. La premessa esige, invece, alcuni passi indietro di qualche millennio o, meglio, di avere presente il racconto biblico della Torre di Babele4. Per farlo seguirò, rielaborandola liberamente, la lettura che ne fa un valido biblista ebreo, Claudio Ronco (che è anche musicologo, compositore e violoncellista)5. Nell’antica lingua sumera, Babele vuol dire “porta di Dio”. Potrebbe significare la porta attraverso cui Dio irrompe nella vita degli uomini per salvarli o per disperderli. Invece, secondo una tradizione popolare ebraica, il nome Babel o Bavel (scritto con le sole consonanti bet-bet-lamed, cioè B-B-L, senza le vocali, che nell’ebraico dell’Antico Testamento non erano scritte) viene dal verbo balal (betlamed- lamed, cioè B-L-L) che significa “confondere”, ma contiene un’intenzione arrogante: “Farsi un nome visibile dal mondo”.
Ogni costruzione umana, osserva Ronco, dipende dallo spirito con cui è progettata, realizzata e le si è data un’anima. Prima della costruzione della torre, “tutta la terra aveva una sola lingua e le stesse parole” e l’umanità era, probabilmente, tenuta unita dalla capacità di comunicare nella lingua comune che – secondo logica – non poteva che essere ancora quella con cui i Progenitori parlavano con Dio. In questa lingua originaria, che per gli ebrei è sostanzialmente quella da loro usata tuttora, il “nome” è ciò che contiene vita, identità, sostanza e significato delle cose come delle persone. Così accadde, narra la Genesi, con il nome dato da Adamo a tutti gli animali e confermato da Dio (2.19). Così, nella logica e nella cronologia della creazione, tutte le cose hanno un nome che, attraverso l’uomo, deriva ed è plasmato dall’unico vero “nome”, quello di Dio (“ha-Shem”, “il Nome” per eccellenza), che è matrice e chiave di ogni cosa, una sorta di DNA supremo della materia prima, della vita e quindi dell’amore.
Allora, però, il “fabbricarsi” un nome, secondo questa esegesi di Babele, può essere letto come il tentativo di manipolare (quasi geneticamente) la natura delle parole e quindi come un nuovo peccato di orgoglio dopo il primo di Adamo e di Eva, un rifiuto del proprio limite (voler “essere come Dio”), che il Creatore aveva già punito con la cacciata dei progenitori dal giardino di Eden, poi con il diluvio e infine con la confusione di Babel. Per capire bene, dunque, questa torre-tragedia delle parole – perché la confusione dei significati, la non-comunicazione tra gli uomini generano caos, provocano tragedia: Babele è all’origine di tutte le guerre – occorre arrivare al diluvio e poi a Mosè. Quando l’umanità, prima della dispersione di Babele, degenera al punto di farsi distruggere da Dio col diluvio, quella “selezione-elezione” che il Signore compie attraverso Noè comporta la costruzione di un’“Arca”. Per realizzarla, Dio ordina: “Ti farai una Tevà” (Gen 6,16). Quando – scrive Ronco – si è tradotta la parola “tevà” si è scelta “arca”, perché galleggia, è un contenitore chiuso destinato a un trasporto (arcano). In realtà “tevà”, in ebraico, significa soprattutto “parola”, “lessema”, parte di un discorso: anche la parola è un contenitore di significati, di verità, di vita. Dunque Dio dice a Noè di fabbricarsi una “parola” e gliela descrive, perché in essa Noè deve riunire gli uomini e gli animali, cioè le forme della vita e trovare la salvezza per tutti.
Ma perché arca = parola? Forse perché l’arca di Noè è un’anticipazione del Verbo e perché, come la Parola, l’Arca è in qualche modo l’inizio di una seconda creazione di cui è protagonista un uomo (Dio) che salva e fonda un nuovo popolo. È il Verbo, la Parola di Dio che, fattasi uomo, salverà il nuovo popolo di Dio e darà inizio a una nuova creazione. A conferma di ciò la parola “tevà” torna nella Torah quando Mosè è trovato dentro una cesta abbandonata nel Nilo: anche la cesta, nel testo ebraico, è una “tevà”, anche qui la tevà-cesto è una parola di salvezza. Sennonché, a proposito di parole, Mosè è “incirconciso di labbra”, vale a dire balbuziente. Come potrebbe egli compiere la missione esaltata dagli ultimi versetti del Deuteronomio? La balbuzie, infatti, che gli impedisce di dire le parole, è scritta proprio nel nome di Mosè. Vediamo come: in ebraico, il nome impronunciabile di Dio, ha-Shem, è scritto con le lettere ebraiche He–Shin–Mem (H-S-M); invece Mosè è “il nome” scritto alla rovescia: Moshe, si scrive Mem–Shin–He (M-S-H) ed è, dunque, il non-nome. Allora Mosè, che “non parla”, salva ugualmente il suo popolo dalla prigionia d’Egitto e dall’inseguimento del Faraone (Satana?), perché è salvato da una parola (una tevà, una cesta). Sia l’Arca che la cesta galleggiano sulle acque, simbolo del caos primitivo su cui lo Spirito aleggiava: la nuova creazione ri-comincia con la Parola, il Verbo, cioè Gesù Cristo che, per meglio comunicare con le folle, sceglie la barca che galleggia sulle acque del Mare di Galilea. Un’altra tevà? Ecco allora, tornando a noi, all’amore e alla vita, che se una parola tradisce il proprio significato, l’esito è un caos.
L’Antilingua è tutt’altro che un gioco di parole o una tattica politica. È piuttosto un piano per demolire il castello dell’etica con tutte le sue torri. Il suo fine è la cancellazione delle parole-verità (quelle iniziali di Adamo), la confusione delle menti, l’abolizione di ogni norma morale, la piena realizzazione dell’autodeterminazione, costruire tante etiche ad personam, legalizzare il proprio comodo. Se l’amore non significa più il legame tra Dio e l’uomo e se, di conseguenza, questo amore divino e umano non è più la base del matrimonio e l’origine della vita, l’uno e l’altra saranno ridotti a una banale Babele, al caos. Ecco perché l’Antilingua, in cui Amore e Vita rischiano, a causa dell’uso che se ne fa, di essere trasferiti, minaccia la confusione della lingua, la dispersione della società-comunità umana, cioè l’inimicizia e la guerra. Non necessariamente questa dev’essere a base di razzi e di invasioni. Diceva la beata Madre Teresa di Calcutta che l’aborto (in Antilingua: IVG, interruzione volontaria della gravidanza) che distrugge non solo la vita ma anche l’idea, il concetto stesso di figlio (per l’Antilingua è soltanto il prodotto del concepimento e nella Legge 194 di aborto la parola “figlio” non c’è). All’amore materno quella legge sostituisce un preteso diritto (il cosiddetto “diritto civile” di abortire) e dunque un’uccisione, che banalizza e svaluta entrambe le altre parole in questione: la Vita e l’Amore.
di Pier Giorgio Liverani (Giornalista e scrittore)
Quaderni Scienza e Vita n.14