Aldo Trento: alla fattoria San Padre Pio, tra piante fiori e l’omelia degli uccellini.

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Image by Gerhard from Pixabay

La fattoria “San Padre Pio” situata nella valle Yoa, sul confine tra i dipartimenti Central e Paraguarí, ha costituito per me un punto di riferimento fondamentale nella mia lunga permanenza in Paraguay. Alberi centenari, canneti, pascoli. Animali grandi e piccoli, con i concerti degli uccellini che all’alba e all’imbrunire incantano le persone che li ascoltano. Il terreno, donato circa dieci anni fa dalla dottoressa Valdez, era abbandonato e inospitale, occupato abusivamente da alcuni contadini che coltivavano cotone, canna da zucchero e foraggio camerun, oltre a tenere lì le loro vacche a pascolare.
Quando con padre Paolino siamo andati lì per la prima volta in compagnia della dottoressa, ci siamo spaventati molto: tra le erbacce c’erano molti serpenti e avevamo paura a camminarci in mezzo. Continuavamo a chiederci che cosa ne avremmo fatto di quel posto, come avremmo fatto a recuperare e rendere produttiva quella terra, come saremmo riusciti a togliere le erbacce che in alcuni punti erano più alte di noi, come avremmo  tolto tutta la sporcizia lasciata dagli abusivi. Eppure, ripensandoci, quel disordine totale è stata la scintilla che ha messo in movimento la ragione e… i muscoli: con vanga, zappa e machete, aiutati da molte persone, a distanza di alcuni anni quella palude si è trasformata in un paradiso. Quanti sacrifici!

Tutto cominciò lo stesso anno delle opere di carità della Fondazione San Rafael. Ricordo che ogni giorno, quando mi alzavo, controllavo il programma di lavoro e poi con l’automobile andavo nella valle Yoa per verificare come stava progredendo la deforestazione: la sistemazione dei differenti canali di acqua fatti con il badile e la zappa nel grande estuario, al limite della strada; la pulizia dei quattordici ettari di terreno e delle diverse costruzioni, come la grande casa per i ritiri, la casa per i malati di aids, la stalla-caseificio, la cappella, il capannone, le tettoie. Per ultimo la piscina. Quanti chilometri ogni giorno! C’erano periodi in cui facevo quel percorso anche due volte al giorno. E tra il quartiere Tumbuctary (sede della Fondazione) e la fattoria c’era un popolo di benefattori e di operai che lavorava con tanto amore.
In quel periodo il mio esaurimento psichico era ancora molto forte e tuttavia il lemma “calli nelle ginocchia (preghiera), calli nella testa (osservazione) e calli nelle mani (badile e vanga)” era quello che mi dava un’energia mai conosciuta prima nella mia vita. Oggi tutti possono vedere quello che la Divina Provvidenza ha fatto e continua a fare. È difficile che una persona che non sia stata uno strumento nelle mani di Dio, possa capire l’abc di questa lunga strada che ha già ventiquattro anni di vita. In realtà Dio ha fatto tutto, io mi sono donato totalmente a Lui con lo stesso entusiasmo col quale oggi mi arrendo alla mia malattia, a Lui che ha dato la sua vita per me.

Andavamo spesso alla fattoria con padre Paolino e padre Ettore. Molte volte uscivamo da San Rafael la notte della domenica e vedevamo lì l’alba. Personalmente ci andavo anche per meditare, riposare, scrivere, contemplare. La bellezza di Dio mi parlava attraverso i canti degli uccelli, la magia dei fiori e il silenzio pieno della Parola che risveglia gli infiniti desideri del cuore. Da quando padre Paolino è andato via e si è scatenata nel mio corpo questa “benedetta” spondilite anchilosante dismetabolica, vado lì grazie a Matías, che mi porta ogni sabato pomeriggio con l’automobile, per celebrare la santa Messa per i malati. Mi costa molta fatica, ma l’attrattiva della bellezza, della selva, della buganvillea in fiore che impreziosisce questo posto e, in modo particolare, il dolore dei miei figli malati di aids e respinti dalle famiglie e dalla società, mi danno l’energia per essere fedele alle loro aspettative.

Quando arrivo, intorno alle 17, mi stanno già aspettando. Scendo dall’automobile con fatica e, una volta in piedi, faccio un grande respiro perché vorrei che tutta l’aria del posto si impadronisse dei miei polmoni. Giro la testa e mi vedo circondato dai grandi alberi che in questa stagione sono tutti in fiore. Mi piacciono gli alti lapachos rosati, mi commuovono i fiori gialli dei grandi lapachos neri. Sui tronchi, un’esplosione allegra di innumerevoli tipi di orchidee. Gli uccellini, ognuno conosciuto con il suo nome guaraní, mi ricevono con un concerto e i differenti gorgheggi formano un’orchestra meravigliosa.
Rimango qualche minuto per vedere e ascoltare questa armonia cosmica… poi, vengo circondato dai miei “figli”; li saluto uno a uno prima di andare a celebrare la Santa Messa, accompagnato pian pianino da tutti. Sabato 12 ottobre era un giorno speciale, non solo perché era l’anniversario della scoperta dell’America e festa di Nostra Signora del Pilar, ma perché venticinque anni fa, in questo stesso giorno, accadde il fatto che avrebbe dato alla mia vita una svolta. Senza quel 12 ottobre 1988 non sarei mai venuto in questo posto. Immaginatevi allora con quanta gioia piena di dolore quel giorno sono andato alla fattoria.

La Messa coi miei “figli”
Era piovuto tutto il giorno, le nuvole coprivano il cielo. Le strade piene di acqua, perché chi conosce le piogge tropicali sa che sono come torrenti che cadono dal cielo. Arrivato alla fattoria è comparso il sole e insieme ad esso anche un’afa soffocante. L’azzurro del cielo, che il movimento delle nubi mostrava, era indescrivibile. Rimasi a guardarlo in silenzio mentre gli uccelli, all’improvviso, hanno dato inizio a un concerto che ci ha “costretti” ad ascoltare la sinfonia più bella del mondo.
Ogni uccello si inseriva in un momento preciso. Alcuni cominciavano, altri rispondevano e c’erano momenti in cui tutte le voci si intrecciavano lasciandoci pieni di stupore. Siamo entrati nella cappella, fatta con mattoni locali e legno lavorato da uno scultore. Le gallerie sono sostenute da tronchi di urunday, un legno così duro che rompe l’ascia.

Ho iniziato la Messa. Un’impresa difficile, la voce non usciva e i ragazzi non rispondevano. Mi sono fermato: «Figli miei, conoscete la mia malattia, vi chiedo per favore di aiutarmi. Thomas, tu che hai una splendida voce, prendi in mano la situazione e insegna loro a rispondere alle preghiere e a recitare i salmi, le antifone, il Gloria, il Credo». Siamo arrivati alla predica. Cosa potevo raccontare del miracolo dei 10 lebbrosi, dei quali solo uno è tornato a ringraziare il Signore? C’erano tante cose belle da dire, ma la voce era spenta. L’unica cosa che sono riuscito a dire, ascoltando la sinfonia degli uccelli, è stata: «Ragazzi, perché non ci sediamo e lasciamo l’omelia agli uccelli?».

Tutti ci siamo seduti in un silenzio assoluto, mentre gli uccelli cardinali, sovias, corochire, pitogue, sái jovy, con il loro canto melodioso e forte, al quale si aggiungeva quello soave di altre specie e pure il “dan, dan, dan” dell’uccello campana, ci hanno permesso di vibrare rendendoci conto di quello che Gesù ci aveva appena detto nel Vangelo. Ci hanno regalato un concerto per educarci alla gratuità.

Il ritorno in clinica
Quando il canto si è spento, abbiamo continuato con la Messa. Cioè, a dire grazie al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo. Finita la Messa abbiamo recitato l’Angelus: come Maria abbiamo detto “Sì” alla modalità con la quale il Verbo si è fatto carne nella nostra malattia, ringraziandolo. Prima di tornare piano piano ad Asunción sono stato accompagnato dai miei figli all’orto vicino, per raccogliere il radicchio, portato dall’Italia, da Chioggia, ma che, avendolo seminato tardi, invece di crescere a forma di cavolo, le sue foglie hanno preso una forma a orecchio d’asino. Tagliate e condite con pancetta fritta nell’aceto mi piacciono molto. Ho dato ancora uno sguardo alle grandi piante di buganvillee, cariche di fiori di diversi colori e, con una grande nostalgia nel cuore, sono tornato ad Asunción per andare a trovare i miei malati prima che si addormentassero.

Don Aldo Trento

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Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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