
Era una mattina dell’agosto del 1995. Il mio secondo figlio era nato da due ore. Lo avevo intravisto solo un attimo, fra le braccia dell’ostetrica. Decisi di alzarmi dal letto, non reggendo la curiosità di andarlo a guardare, oltre la vetrata della nursery. In vestaglia, nel silenzio dell’ospedale in mezzo alla Milano vuota del Ferragosto, mi avviai dunque a esaminare il nuovo arrivato. Se ne stava solo in mezzo a una fila di culle, proprio al centro della stanza. Dormiva. Incollai il naso alla vetrata, come una bambina davanti a un negozio di bambole. Quasi avidamente mi concentrai nella contemplazione: – il “mio” bambino, esultava di orgoglio la madre in me. Aveva un sacco di capelli, il naso schiacciato e quell’aria imbronciata che in famiglia abbiamo tutti. Assomigliava, mi dissi fiera, a me.
Mentre ero profondamente immersa nella mia analisi arrivò davanti alla nursery una vecchia signora con un bambino sui cinque anni per mano, probabilmente la madre di un’altra gestante. La signora indicò al nipote mio figlio nella culla, e gli disse: “Guarda quel bambino, è nato da poche ore. Pensa che cosa straordinaria: nove mesi fa non c’era, e ora c’è”. Quelle parole semplici mi fecero sussultare. Io ero lì a guardare se mio figlio era biondo o bruno, e quella anziana sconosciuta mi aveva indicato l’essenziale: “Nove mesi fa non c’era, e ora c’è”. Il miracolo, lo sbalordimento di fronte a ciò che “non era” e ora era un uomo. “Fatto” da me? No, il mio orgoglio di un attimo prima si era sciolto. Potevo davvero pensare di avere “fatto” io quell’uomo? Neanche un’unghia, avrei saputo fabbricare. Nella meraviglia di un riconoscimento semplice l’orgoglio si faceva gratitudine. Mi era stato regalato un figlio. Avrei potuto solo, per tutta la vita, ringraziare. L’episodio di quel 17 di agosto mi è rimasto non solo nel cuore, ma in testa. La vecchia signora aveva compiuto con suo nipote un’opera sintetica, ma limpida di educazione alla vita. Aveva saputo operare nel bambino, e anche in me che ascoltavo, lo “thauma”, lo stupore degli antichi di fronte al reale.
Quello stupore che è contemporaneamente “invasione divina”: attraverso il mostrarsi del reale, ciò che è può rendersi evidente ai nostri occhi nella sua essenza di “dato”, di altro dall’uomo, che lo precede. Pensai, quella mattina, che quello era lo sguardo sulla vita che avrei voluto trasmettere a quel mio figlio, e ai suoi fratelli. La meraviglia di fronte all’evidenza del fatto che non ci facciamo noi. Mi sarei resa conto con gli anni, e anche nel mio navigare di giornalista, che l’impresa non era però così facile. Originariamente lo stupore davanti a un figlio, come davanti a una montagna, come davanti al mare, lo stupore di fronte alla vita in ogni sua forma è istintivo: lo si osserva naturalmente nei bambini. Ma crescendo subentra un movimento contrario; scompare lo stupore, e ciò che guardiamo facilmente diventa oggetto, cosa senza alcuna origine, e che però, avidamente, ci appartiene, o vorremmo ci appartenesse. È come se, invecchiando, e senza un’educazione, l’evidenza limpida della “realtà che non si fa da sé” si offuscasse.
Hannah Arendt ha scritto che l’ostilità al “dato” è il segno culturalmente più forte della modernità. La sua sembra una profezia del nostro tempo, che al “dato” della maternità naturale, dell’amore fra uomo e donna, perfino della morte oppone una sua ostinata ansia di “modifica” della natura, e di appropriazione. È in realtà, difficilissimo riuscire a guardare il mondo come insegnava a suo nipote quella vecchia signora. Lo è in quel “restringimento della ragione” che, come ha detto Benedetto XVI a Ratisbona, occorre “riallargare”. Viviamo in una ragione asfittica, che ha escluso dall’ambito della ragionevolezza e dunque della razionalità tutto ciò che non sia misurabile in senso positivistico. Lo sguardo di un uomo “moderno” sul mio bambino neonato avrebbe visto in lui un piccolo essere umano, quattro chili di peso, parametri del sangue a posto, cuore e respiro regolari; avrebbe potuto anche scansionarne il Dna, e decrittare eredità e future malattie. Ma quell’uomo moderno non avrebbe saputo dire: nove mesi fa non c’era, e ora c’è; e sentirsi mancare il fiato dallo stupore. Educare alla vita è educare allo stupore. Luigi Giussani su questo ha scritto pagine memorabili ne “Il senso religioso”. Occorre rieducarci a uno sguardo che ci è stato sottratto da tre secoli di illuminismo, positivismo e esistenzialismo.
Ma, come si fa? Quando aspettavo il mio primogenito avvertivo confusamente questa incapacità a “introdurre” alla vita, quasi respirata nel mio buon liceo laicista, e nella lettura di libri e giornali rigorosamente “corretti” quanto a pensiero unico sull’umano destino. Dissi un giorno a un medico che mi visitava: “Professore, ho paura, io non so cosa dirgli, a questo figlio”. E lui, in risposta: “Non si preoccupi. Sarà lui a spiegarle molte cose”. Aveva ragione. Credo di avere imparato dai miei figli, quando erano piccolissimi e dunque intatti in quello sguardo originario, più di quanto loro abbiano imparato da me. Io balbettavo, ma loro erano sapienti. Ricordo la volta che portai il mio primogenito di poco più di un anno sulla riva del mare. Era la prima volta che coscientemente Pietro vedeva il mare. Si immobilizzò, attonito davanti alle onde. Poi, come impazzito di gioia, prese a fare la spola fra la riva e me, ogni volta abbracciandomi. Come ringraziandomi, perché gli avevo regalato il mare. Io, ridendo, mi schermii, un po’confusa: “Ma guarda che il mare non l’ho fatto io!” E continuai a pensare a lungo a quella che mi pareva una strana reazione. Ne parlai poi con un amico saggio, che mi disse: “Tuo figlio ha capito tutto. Il mare non l’hai fatto tu, ma, mettendolo al mondo, in un certo senso sei tu che glielo hai regalato”. E dunque a un anno e mezzo un bambino ci “vede” molto bene: guarda il mare, è felice della sua bellezza, e poiché non sa di Dio, è grato a chi ai suoi occhi gli ha “regalato” il mare, a sua madre. Di modo che, io credo, più che di educare alla vita, con i nostri figli si tratterebbe di non guastarli con i nostri pregiudizi, con la cecità ereditata di un’era presuntuosa. Non è facile: siamo profondamente avvolti in questa opacità, in questa pretesa di autosufficienza che alla fine genera disperazione. Il passo audace da trasmettere a chi nasce è che il grado supremo della ragione umana è riconoscere che molte cose vengono prima della nostra ragione, e la superano. Se lo stupore per ciò che è dato diventa gratitudine, questa gratitudine può farsi letizia (anche questo passaggio è di Giussani, “Il tempo e il Tempio”). E quindi lo thauma può incarnarsi in un vivere non spaventato, non ansioso, non manipolatore, ma felice della vita. Il segreto, forse, sta nel riscoprirsi creature. Creature, e dunque figli di un Padre, dentro a un disegno e non a un caso. Solo così, credo, si può trovare il coraggio di essere a nostra volta madri e padri.
di Marina Corradi (Giornalista e scrittrice), da “Quaderni di Scienza e Vita n.5”. (titolo originale Educare alla vita: un percorso credente)