Cosa auguriamo a Natale? Una formalità o qualcosa di sincero?

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, Public domain, via Wikimedia Commons

In attesa del Natale c’è chi è entusiasta del Natale, chi non vede l’ora che passi.
Tutti, però, volenti o nolenti, si ritrovano ad augurare “Buon Natale” o a riceverlo.

Un gesto formale, meccanico, oppure qualcosa di sincero? Perché dire ancora “Buon Natale”? Che senso ha ricevere un tale saluto?
Magari riceviamo solo dei miseri e spogli “Buone feste” o “Tanti auguri”, oppure un anticipato “Buon anno nuovo” che evita il discorso religioso.
Chissà se facciamo copia e incolla di un’immagine banale, una scritta luccicante con qualche emoji natalizia, o pensiamo a ciò che auguriamo, a ciò che festeggiamo.

L’Avvento che precede il Natale è il tempo giusto per preparare gli auguri.
C’è una preghiera antica, il Rorate coeli desuper et nubes pluant iustum:
“Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi facciano piovere il Giusto.”

È l’invocazione di un’umanità che riconosce la propria oscurità interiore e desidera, attende, una luce capace di rischiararla. Dire “Buon Natale” è un augurio di speranza: siamo in attesa di qualcosa che ci salvi, che ci illumini e ci scaldi, come il sole che lentamente torna dopo il solstizio d’inverno.

Un tempo, dicembre era davvero un mese di tenebre, perché le notti erano lunghe e oscure, c’era meno illuminazione pubblica, e persino un piccolo fuoco rischiarava il cammino del passante. Ma oltre al buio esteriore, c’era, e c’è ancora, un buio interiore: la consapevolezza di un male che l’uomo da solo non può vincere.
Augurare “Buon Natale” significa riportare alla memoria che il Natale è la festa della luce che vince il buio, di una stella che guida nelle notti più nere, di una speranza che squarcia la disperazione.

A vincere il buio non è qualcosa, ma Qualcuno: è la nascita di un bambino, la promessa di un Redentore, il vero centro del Natale.
Augurare “Buon Natale” è ricordare che quel Bambino rappresenta il segno che il male non ha vinto, che la morte non è definitiva.

Nei negozi e nelle strade, ovunque risuonano canzoni natalizie come Jingle Bells o l’immancabile All I Want for Christmas Is You di Mariah Carey, ormai un vero e proprio tormentone delle feste.
Si ricevono tanti auguri, ma il Natale sembra una festa vissuta più per abitudine che per convinzione. Dietro questa “forzosa allegria”, molti percepiscono un’inconfessata tristezza, un senso di vuoto, come se qualcosa mancasse.
Dire “Buon Natale” può però diventare un gesto sincero, un tentativo di riportare autenticità a una festa che non dovrebbe mai essere solo luci, canzoni e regali, ma il ricordo di una promessa di gioia vera.

Il Natale è la festa del dono, ma non solo quello materiale. È il dono della luce che scende dall’alto, del cielo che si china verso la terra per riaccendere la speranza. Dire “Buon Natale” è un invito a guardare oltre i pacchetti sotto l’albero e riscoprire il senso più profondo del dono: il tempo, la vicinanza, l’amore condiviso con gli altri. È un augurio che dice: sii luce per qualcuno, così come il cielo ha stillato luce per noi.

Auguri di che cosa, allora?
Non di felicità superficiale, né di regali scintillanti. Gli auguri di Natale dovrebbero essere auguri di pace, di speranza, di rinascita. E chi, se non Gesù, può darci questi doni? Quindi auguriamo Gesù, auguriamoci di poterlo incontrare e di portarlo anche a chi ci è intorno.

Come l’antico canto dell’Avvento, Rorate coeli desuper, ci insegna: augurare “Buon Natale” significa invocare quella luce che il mondo, nella sua agitazione, ha dimenticato di desiderare:
“Stillate, cieli, dall’alto, e le nubi facciano piovere il Giusto.”

Auguri di un Natale che sia vera luce, anche nelle nostre tenebre, anche nel mondo consumista che compra tutto e non ha quello che dona felicità.
Perchè non si compra CHI dona la felicità.

Paolo Botti

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