Analía è una ragazza della Casa di Chiquitunga (la struttura dove vivono le ragazze madri, vittime della violenza), viene da Ñemby, a 20 chilometri da Asunción, ed è la maggiore di sette fratelli. Ha 17 anni e due bambini, Kiara di 2 anni e Lucas, 8 mesi, affetto da microcefalia. Poche settimane fa Lucas ha avuto qualche complicazione ed è stato necessario ricoverarlo in clinica per l’ossigenoterapia. Analía in quei giorni pranzava e cenava in casa con noi. Una sera, dopo cena, ha iniziato a raccontarci la sua vita fino ad ora. Ecco il suo racconto.
Avevo 6 anni quando ho iniziato a lavorare in case di altri. Spazzavo, lavavo le stoviglie, pulivo i bagni, e guadagnavo 1 dollaro al giorno; per me era moltissimo. Mia nonna mi picchiava, soprattutto perché a lei davo solo 50 cent, con il resto compravo biscotti e gazzosa e mi sedevo a mangiare prima di tornare a casa. Mia nonna mi picchiava con un bastone, io scappavo, mi lasciava piena di lividi. Finché un giorno una vicina di casa mi ha accompagnato alla Codeni (ente municipale per i diritti dei minori, ndr) perché denunciassi mia nonna, ma lì non mi hanno creduto, nemmeno vedendo le mie contusioni. Me ne sono andata di casa per vivere su un albero. L’albero si trovava di fianco a casa di mia nonna, quasi nello stesso giardino, ma era alto e mia nonna era bassa e non riusciva a picchiarmi mentre ero lassù. Ho imparato a dormire senza muovermi.
Un giorno, quando non ce la facevo più per la fame, sono scesa per mangiare a casa della nonna, ma lei mi ha colpito e mi ha gridato: “Vattene! Te ne sei già andata, vattene da sola!”. Così sono tornata sull’albero, dove ho vissuto dai 6 agli 11 anni. Di giorno lavoravo guadagnando 1 dollaro, che spendevo in cibo. Poi salivo di nuovo sull’albero ad aspettare la notte. Quando tutti nel quartiere dormivano, scendevo e correvo presso un piccolo fiumiciattolo che scorreva dietro la casa di mia nonna. Lì mi lavavo e pulivo i miei vestiti (avevo solo quelli che indossavo), poi mi arrampicavo sull’albero e stendevo gli abiti aspettando che il vento li asciugasse. Prima che sorgesse il sole mi vestivo, scendevo, andavo alla fontana a lavarmi la faccia, mi sistemavo i capelli e andavo a lavorare.
Non andavo a scuola: se mi iscrivevano, non ci mettevano molto a mandarmi via. Non so leggere e so scrivere solo il mio nome e poche altre parole. Quando stavo per compiere 12 anni, i miei vicini si accorsero che vivevo su un albero, fino a quel momento nessuno lo aveva scoperto. Così una signora mi ha accolto in famiglia e ho vissuto bene per due anni, finché non hanno abusato di me. La signora aveva due figli, uno di 22 anni, l’altro di 17. Io ne avevo 14. Vivevo e lavoravo in quella casa. Il figlio minore mi ha violentata e sono rimasta incinta. Io l’ho denunciato, ma nessuno mi ha creduto perché lui si è inventato che ero io che lo cercavo, e come prova ha portato delle false lettere d’amore che io non ho mai scritto (non so farlo).
«I miei bellissimi bambini»
Ho deciso di tenere mia figlia, non ho mai pensato all’aborto, anche se mi è stato suggerito. Sono andata a vivere con mia mamma nella casa di mia nonna. Al sesto mese di gravidanza mio padre mi ha vista al supermercato e ha chiamato mia madre dicendole che dovevo andare a vivere con lui, altrimenti l’avrebbe citata in giudizio. Mia mamma ha accettato.
Mio padre viveva a San Antonio, a 950 chilometri dalla capitale, con un’altra donna da cui ha avuto undici figli. Ho avuto Kiara mentre vivevo con loro. Quando Kiara aveva 8 mesi mio padre ha abusato di me, e ha provato anche con mia figlia. Io sono rimasta incinta di Lucas, che oltre a essere mio figlio è anche mio fratello. Ho denunciato mio padre ma ancora una volta nessuno mi credeva. Sono passati così altri due mesi. Mio padre mi ha rinnegata. Lui stesso ha chiesto l’esame del Dna che ovviamente è risultato positivo. Ora lui si trova nel carcere di alta sicurezza di Emboscada. Non so fino a quando, ma so che anche i suoi figli avevano segni di abusi sessuali.
Quando ero al secondo mese di gravidanza, sono arrivata alla casa di Chiquitunga, e qui ho avuto Lucas che è nato con microcefalia e altri problemi di salute. Kiara ancora adesso non può vedere gli uomini, ne ha molta paura. Io non serbo rancore né verso mia mamma né verso mia nonna. Quando compirò 18 anni le andrò a trovare e per far conoscere loro i miei due bellissimi bambini.
Annalía compirà 18 anni a metà luglio. Potrà decidere se andarsene o restare con noi. Già mi ha chiesto di restare perché qui si sente amata e sicura. Ancora una volta il sentirsi amati vince sull’odio, sul desiderio di vendetta.
Don Aldo Trento – Tempi
Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).
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