Confessore dei piccoli delinquenti A Torino, insieme con don Cafasso – che è chiamato « il prete della forca » – don Bosco comincia il suo ministero in qualità di confessore alle carceri nuove; là « vedere un gran numero di giovinetti dai 12 ai 18 anni, tutti sani, robusti, d’ingegno sveglio; vederli inoperosi, rosicchiati dagli insetti, stentare di pane spirituale e materiale, fu cosa che mi fece inorridire ». Parlò con loro. Venne a conoscere le loro povere storie. L’avvilimento e la rabbia li rendevano spesso feroci. Il delitto più comune era quello di furto. Avevano rubato per fame, per desiderio di qualche altra cosa oltre il pane, o anche per invidia della gente ricca che li sfruttava e li lasciava nella miseria. Erano nutriti di pane nero e acqua. Dormivano in cameroni collettivi e i più spavaldi la facevano da caporioni.
Cercò di capire. « Erano abbandonati a se stessi ». Non avevano famiglia e i parenti li respingevano perché essi « li avevano disonorati ».
« Dicevo a me stesso: Questi ragazzi dovrebbero trovare fuori di qui un amico che si prenda cura di loro, che li assista, li istruisca, li conduca in chiesa nei giorni festivi… ». Cerca di farli riflettere; promettono di farsi più buoni. Ma quando ritorna da loro tutto è tornato come prima. Don Bosco piange. – Perché piange quel prete?
– Perché ci vuol bene. Anche mia madre piangerebbe se mi vedesse qua dentro.
L’esperienza delle carceri è traumatizzante per don Bosco. Ormai l’Oratorio è il suo chiodo fisso. Vuol realizzare un centro, una famiglia in cui i ragazzi abbandonati trovino un focolare, un amico; i giovani ex-carcerati abbiano un punto di riferimento, un sostegno. Un Oratorio che non funzioni solo la domenica, per il catechismo, ma si prolunghi lungo la settimana, mediante l’amicizia, l’assistenza, l’interessamento a procurare un’occupazione, gli incontri sul lavoro.
Don Bosco ha ormai compreso la sua vera missione. I suoi « sogni » appaiono chiari. Si dedicherà tutto ai ragazzi. A educarli, a redimerli, a salvarli.
Fra alcuni mesi, guarito da una grave malattia per le preghiere dei suoi monelli, dirà loro: « La mia vita la devo a voi. E vi do la mia parola: la spenderò tutta. per voi ».
Parole gravi. Parole definitive, cui fanno eco le ultime che don Bosco pronunciò prima di morire: « Dite ai miei ragazzi che li aspetto tutti in Paradiso ».
L’incontro provvidenziale La mattina dell’8 dicembre 1841 don Bosco si trovava nella sacrestia di S. Francesco d’Assisi, ove era vicecurato, e stava vestendosi per celebrare la Messa.
Il sacrestano, vedendo un giovanetto in un canto, lo invitò a servire.
– Non so! – rispose il ragazzo tutto mortificato. – Bestione che sei! – esclamò il sacrestano… – Se non sai servire Messa, perché vieni in sacrestia?…
Prende la pertica dello spolverino e giù colpi sulle spalle e sulla testa del malcapitato.
L’altro, intanto, se la dà a gambe, gridando; e don Bosco, prendendo le difese, apostrofa il sacrestano dicendo: – Che fate?! Perché battete così quel poveretto? – Non sa servire la Messa e viene in sacrestia.
– Chiamatelo: ho bisogno di parlargli; è mio amico. Il sacrestano gli corre dietro, lo chiama, lo persuade a ritornare in sacrestia, e lo presenta a don Bosco che, con amorevolezza, gli dice:
– Hai già udita la Messa? – No.
– Vieni dunque ad ascoltarla; dopo, ho da parlarti di una cosa che ti farà piacere.
Celebrata la Messa, prese ad interrogarlo.
– Mio buon amico, come ti chiami?
– Bartolomeo Garelli. – Di che paese sei?
– Di Asti.
– Quanti anni hai?
– Sedici.
– Sai leggere e scrivere?
– Non so niente.
– Che mestiere fai?
– Faccio il furic (garzone di muratore).
– E tuo padre e tua madre?
– Sono morti tutti e due da un pezzo.
– Sei già promosso alla Comunione?
– Non l’ho mai fatta.
– Ti sei già confessato?
– Sì, ma quando ero piccolo.
– Vai al catechismo?
– Non oso più, perché i miei compagni mi burlano.
– Se ti facessi il catechismo qui a parte, verresti?
– Ci verrei molto volentieri, purché non mi diano delle bastonate!
– Sta’ tranquillo; d’ora innanzi sarai mio amico; quando vuoi che incominciamo?
– Quando le piace.
– Anche adesso?
– Sì, anche adesso, con molto piacere.
Si diede così principio. A lui si unirono ben presto altri compagni; e Bartolomeo Garelli restò la pietra fondamentale degli ora ori festivi di don Bosco e di tutta l’opera salesiana.
Ricordando il fatto il Garelli andava ripetendo: – Le busse del sacrestano mi fecero felice.
Potenza dell’entusiasmo Se i poeti narrano di Orfeo che traeva dietro il suo canto le piante e i sassi, ben si può dire che don Bosco traeva dietro di sé, col suo fascino irresistibile, i ragazzi, che al solo vederlo ne restavano elettrizzati e gli correvano incontro.
Un giorno si imbatté presso Porta Palazzo in uno dei suoi giovanetti che tornava dal fare la spesa, con due bottiglie in mano, una d’olio, l’altra di aceto.
Il piccino, appeno lo vide, si mise a saltare per l’allegrezza e gridare: – Viva don Bosco!…
Il santo, sorridendo, gli risponde: Evviva!…
Poi, appressatosi al ragazzo, gli disse per scherzo: – Sei capace fare come faccio io?
– E si mise a battere le palme delle mani.
Il fanciullo, fuori di sé per l’entusiasmo, mette le bottiglie sotto il braccio e fa per battere anche lui le mani. Le bottiglie cadono a terra e vanno in frantumi.
Al rumore dei vetri rotti e alla vista dei liquidi sparsi, restò come sbalordito, e si mise a piangere a dirotto dicendo:
– Oh!… quante busse mi darà la mamma mia!
– Allegro, allegro!
– gli disse don Bosco.
– È un male al quale si rimedia subito. Vieni con me.
Lo condusse in una vicina bottega, dove, narrato l’episodio alla padrona, la pregò di provvedere il ragazzo di quanto aveva perduto.
– Ecco fatto!
– esclamò la donna, piena d’ammirazione per il giovane sacerdote, e soggiunse: – Chi è lei?
– Sono don Bosco… il padre dei birichini. Qual somma le debbo?
– Sarebbero 23 soldi; ma tutto è saldato!
Don Bosco ringraziò della generosità ed uscì col fanciullo.
Un altro di questi ragazzi era addetto come garzone in una bottega di stoffa, la quale, per mezzo d’una grossa porta a vetri, immetteva su una delle vie principali di Torino. Un giorno, mentre stava accudendo alla pulizia, vide passare don Bosco. Nel primo slancio del cuore corre per andarlo a riverire, ma, non riflettendo di aprire la porta, vi batte col capo e la manda in frantumi.
Al rumore dei cristalli accorre tutto il personale del negozio. Il padrone alza la voce e grida; la gente si ferma e fa crocchio; e il povero fanciullo si fa d’appresso a don Bosco tutto tremante.
– Che cosa hai fatto? – prese a dirgli sorridendo il Santo.
– Ho veduto lei passare, e non ho badato che la porta era chiusa.
– Ebbene, pagherò io il danno; sei contento?
Ma il padrone, che aveva capito che si trattava di una svista, soggiunse: – Non sia mai che il buon cuore di questo ragazzo e la carità di don Bosco abbiano a soffrire. Spero che un’altra volta il nostro Carluccio non pretenderà più di passare attraverso i vetri come lo spirito folletto.
La cuffia di una impertinente Don Bosco, vedendo che i locali ove teneva il catechismo non bastavano più ad accogliere tutti i suoi giovani, andò in cerca di un sito più spazioso, e lo trovò presso la cappella dell’antico Cimitero, detto di San Pietro in Vincoli.
Accordatosi col cappellano, la domenica 25 maggio 1844 condusse il suo piccolo mondo a San Pietro. Il luogo ampio e libero eccitò nei giovani il più vivo entusiasmo e li rese frenetici di gioia.
Ma ahimè! avevano appena incominciato a gustarla, che si mutava tosto in grande amarezza per opera d’una donna. Era la domestica del Cappellano, la quale all’udire i canti, le voci, gli schiamazzi dei 400 giovanetti, uscì di casa su tutte le furie, e con le mani sui fianchi e la cuffia per traverso, si diede ad apostrofarli, come sa fare la lingua di una donna inviperita.
Insieme con lei, inveiva anche una ragazza, abbaiava un cane, miagolava un gatto, chiocciavano le galline. Si sarebbe detta imminente una guerra europea.
Don Bosco tentò dapprima di sedare quella tempesta, ma si sentì scaricare addosso un nugolo d’insulti da quella poveretta, che, urlando come un’ossessa e stringendo i pugni, finiva gridando: – Via!… Via!… E lei, don Bosco, si guardi bene dal tornare domenica ventura in questo luogo, perché altrimenti saranno guai!
Il santo, per troncar quella scena disgustosa, rispose semplicemente e pacatamente: – Mia buona signora, neppur lei è sicura di essere qui domenica ventura.
Radunati quindi i suoi giovani, se ne andò dicendo loro: – Poveretta! ci intima di non portare più i piedi qui, e domenica ella sarà già al cimitero!
E così avvenne realmente.
Come crescono i cavoli Don Bosco, obbligato a sloggiare da San Pietro in Vincoli, ottenne dal Municipio di riunire i suoi ragazzi nella chiesa dei Molazzi, ossia dei mulini della città.
Anche qui però, al primo giungere di quella schiera di ragazzi allegri e schiamazzanti, tutta la popolazione dei dintorni, insieme coi padroni e coi mugnai, presero a protestare. Il più feroce di tutti fu il segretario dei mulini, il quale, raccogliendo qua e là false voci contro quei poveri ragazzi e contro chi li radunava, scrisse al Municipio una lunga lettera di accuse, in seguito alla quale il Consiglio municipale decretò lo sfratto a don Bosco anche di là.
Quando il Santo annunziò la cosa ai suoi giovani, li incoraggiò dicendo: – Dobbiamo fare un’altra volta San Martino, ma niente paura! I cavoli trapiantati diventano più belli, e noi diventeremo dei gran cavoloni! – Ma soggiungeva in tono profetico: – La Provvidenza prenderà la difesa della vostra innocenza!
Una colazione al monte Sloggiato anche dai Molini, don Bosco si vide costretto ad affittare un prato per i suoi giovani. Là faceva il catechismo e le prediche. In quanto alla Messa, li conduceva or di qua or di là nelle chiese della periferia.
Una domenica si portarono al monte dei Cappuccini, ove tutti fecero la santa Comunione, dopo di che, usciti sul largo piazzale, don Bosco distribuì loro la colazione. E, mentre tutti allegramente mangiavano, ne vide uno che, in disparte, stava mestamente osservando.
Si avvicinò e gli chiese: – Come ti chiami?
– Paolino.
– Hai preso la colazione?
– No, signore.
– Perché?
– Perché non mi sono né confessato né comunicato.
– Non occorre né confessarsi né comunicarsi per avere la colazione.
– Che cosa ci vuole?
– Nient’altro che l’appetito.
– Oh!… quello ce l’ho… e come!
– Vieni dunque con me.
Lo condusse al cesto, gli diede in abbondanza pane e frutta, e soggiunse sorridendo:
– D’ora in poi non avrai più paura di don Bosco, ma gli sarai amico.
– Oh, sì, sì!… tanto, tanto.
Fu di parola; si unì ai giovani dell’oratorio e lo frequentò assiduamente.
Scorta d’onore Ma anche in quel prato, non mancarono a don Bosco le molestie. Un giorno vi si recò in persona niente meno che il marchese Michele Cavour, sindaco di Torino, il quale, vedendo don Bosco seduto per terra fra un circolo di giovani, domandò: – Ma chi è quel prete?
– È don Bosco!
– Don Bosco!… – esclamò stupito il Marchese.
– O egli è un pazzo, oppure un illuso. – E, fattolo chiamare a sé, gli disse: – Mio buon prete, prendete il mio consiglio: lasciate perdere quei mascalzoni; essi non daranno che dispiaceri a voi e fastidi alle autorità. Io vedo che queste adunanze sono pericolose, e perciò, non posso più tollerarle.
Alle calme ed umili osservazioni del Santo, il Marchese finì col soggiungere: – Ma che importa a voi di questi monelli? Lasciateli nelle loro case. Non prendetevi delle responsabilità!
– M’importa la loro istruzione religiosa, la loro salvezza – rispose don Bosco.
– Intanto, vi farò sorvegliare!
E da quel giorno la questura, ogni domenica, continuò per un bel pezzo a mandare carabinieri e guardie a passeggiare nei dintorni di quel prato e dovunque egli conducesse i suoi giovani. Don Bosco sorrideva nel vedersi accompagnato, come un sovrano, da quella scorta d’onore, e usava chiamare quei tempi i più romantici del suo Oratorio.
Cantori in barca Don Bosco si serviva del canto e della musica come di mezzo potente per attirare e trattenere i suoi giovani; e questi canti accrescevano potentemente l’entusiasmo nei fanciulli e l’ammirazione nelle popolazioni. Un giorno condusse i suoi birichini ad una passeggiata in barca sul Po fino alla Madonna del Pilone. Quando le tre barche furono in mezzo al fiume, intonarono una lode. A quel canto, la gente che si trovava sulle sponde si mise a seguire il corso delle barche. Una compagnia di trombettieri, che a caso si trovavano là di passaggio, diedero fiato alle trombe e presero ad accompagnare quel motivo facilissimo con mirabile effetto. Man mano che le barche ed il canto avanzavano, la gente s’accresceva; e quando si giunse alla Madonna del Pilone, tutti gli abitanti uscirono fuori dalle case per portarsi a fare festa ai giovani cantori, e regalar loro frutta e dolci. L’allarme dei parroci
Tra le molteplici opposizioni che trovò don Bosco nei primi tempi della sua Opera, vi fu anche quella dei Parroci della città.
Parecchi di questi Parroci, vedendo accorrere all’Oratorio tanti giovani, presero ad allarmarsi, e, forti dei loro diritti di istruire e promuovere ai sacramenti i propri parrocchiani, pregarono l’Arcivescovo che comandasse a don Bosco di desistere dalla sua impresa, e lo destinasse viceparroco in qualche paese di montagna. Allora l’Arcivescovo, dietro invito di don Bosco, mandò alcuni di questi Parroci all’Oratorio perché vedessero quanti erano i giovani appartenenti alle loro parrocchie.
Radunata quella moltitudine irrequieta, presero ad interrogarli a quale parrocchia appartenessero.
– Io sono di S. Biagio.
– E dov’è questa parrocchia?
– A Biella.
– Io sono di Santa Filomena.
– Ma dov’è?
– Sul Lago di Como.
– Io sono di Santa Zita presso Genova. Io sono di Sant’Eufemia sul Ticino. Io sono di S. Eusebio di Vercelli. Io di S. Zeno di Milano. Ed io sono di S. Martino nel Cadore.
– Basta! Basta! Non mi stordite! Ma qui a Torino, dove abitate? A quale parrocchia appartenete? Silenzio generale.
Alcuni sapevano il nome della via e non quello della parrocchia; altri in pochi mesi avevano cambiato domicilio più volte; altri dormivano alla ventura, cercando un rifugio notte per notte; chi non stava più con i parenti, chi li aveva perduti, chi non li aveva mai conosciuti.
Perduta la pazienza, quel primo Parroco passò le armi ad altro collega, ol quale incominciò: – Oh, bravi! … sentite. A te: di dove sei? – Io sono di Valsesía, provincia di Novara. – E tu?
– Io di Valtellina, provincia di Sondrio. – Io di Val Lomellina, Pavia.
– Io di Val Policella, Verona.
– Io di Val Negra, Bergamo.
– Basta! Ho capito…. Tutti forestieri, a quanto pare.
Indi, volgendosi all’altra parte: – E voi di dove siete?
– Noi siamo di Val Vasone, presso Udine. – E noi di Valtrompia, in quel di Brescia. – Noi di Valsugana nel Trentino.
– Alt! Ancora un poco, e andremo a finire nella valle di Giosafat. Nessuno dunque delle parrocchie di Torino?
– Nessuno!
Anche costui, perduta la pazienza, voleva rimettere le armi ad un terzo, ma tutti si persuasero che non avevano nulla a fare, e se ne andarono.
Uno però ve ne fu che volle ostinarsi ad accampare delle pretese; e don Bosco gli mandò tutti i ragazzi che dovevano essere ammessi alla prima Comunione.
Al vedersi arrivare quella turba schiamazzante, questo Parroco allibì, e domandò seccamente: – Che cosa volete da me?
– L’esame di catechismo per la prima Comunione. – Tornate un’altra volta: ora sono occupatissimo. I giovani tornarono all’Oratorio vociando: – L’esame non ce l’ha voluto dare.
– Ma glielo avete detto che vi mandavo io? – Questo no!
– Bene, ritornate, e pregatelo in nome mio che abbia la bontà di esaminarvi.
I ragazzi obbedirono, e invece del Parroco, trovarono due vicecurati i quali, vedendo che la maggior parte erano adulti, presero a canzonarli: – Ma bravi!… alla vostra età… ancora da fare la prima Comunione?… questa è una vergogna! Si vede che non avete fretta, e potete ancora aspettare. Per ora non abbiamo tempo da perdere con voi. Ritornerete domani o fra otto giorni.
Quei poveri giovani rifecero una seconda volta la strada, confusi e umiliati, protestando che non sarebbero ritornati mai più.
Don Bosco allora riferì all’Arcivescovo e ne ebbe i più ampi permessi e larghe concessioni.
Piange e ride con i suoi figlioli Nel mese di luglio del 1846, Don Bosco fu assalito da una potentissima bronchite che lo ridusse in fin di vita. Tutti pregavano per lui. Una notte pareva che dovesse essere l’ultima di sua vita. Il Teologo Borel che lo assisteva si sentì ispirato a suggerirgli che facesse anche lui una preghiera per la sua guarigione. Don Bosco taceva, ed il Teologo replicò: – Don Bosco, lei sa che lo Spirito Santo ci consiglia di pregare nelle nostre infermità. Dunque, preghi a questo fine.
– Lasciamo che faccia Iddio la sua volontà.
– Ebbene, dica almeno con me: Signore… se così vi piace… fatemi guarire.
E don Bosco taceva ancora.
– Mi faccia il piacere, caro don Bosco; glielo domando a nome dei suoi figli piangenti: dica con me, e lo dica di cuore: Signore…
Il malato, per consolarlo, prese a ripetere: – Signore…
– Se a voi piace… – Se a voi piace…
– Fatemi guarire… – Fatemi guarire…
Appena fatta quella preghiera, il buon Teologo s’alzò, ed asciugandosi le lacrime, esclamò:
– Basta così! Lei guarirà certamente… ne sono sicuro.
Né si sbagliò: don Bosco prese sonno, e quando si svegliò, era ritornato a vita novella. I medici, recatisi a fargli visita col timore di trovarlo morto, toccandogli il polso, gli dissero:
– Caro don Bosco, si alzi, e vada a ringraziare la sua Madonna, ché ne ha ben ragione.
La notizia di quella improvvisa guarigione inondò di consolazione il cuore di tutti.
La domenica lo adagiarono su un seggiolone e lo portarono in giro, come in trionfo.
La marchesa di Barolo Godeva d’una gran fama in Torino e in tutto il Piemonte la Marchesa di Barolo, signora ricchissima e di grande pietà, tutta dedita ad opere di beneficenza.
Costei, piena di venerazione per don Bosco, vedendolo ridotto in fin di vita, ritenne necessario un suo energico intervento perché abbandonasse l’Oratorio.
Un bel giorno, chiamatolo a sé, prese a dirgli: – Don Bosco, intendo farle una proposta per lei assai vantaggiosa. Lasci i suoi ragazzi, e passi alla direzione dei miei Istituti.
Don Bosco senza esitare, rispose: – Che dice, signora?… Lasciare i miei fanciulli?… Oh no! Io non posso, non debbo abbandonarli. Vostra signoria ha denari e mezzi molti, troverà facilmente chi la possa e la voglia coadiuvare. Chi invece si prenderà cura di questi miei giovani?
– Dunque, lei preferisce i suoi piccoli vagabondi ai miei Istituti? E che cosa potrà fare, così povero, senza un soldo e senza aiuti?
– Signora Marchesa – continuò don Bosco – io sono povero, non ho un soldo, ma non ho bisogno di lei! – Ecco il superbo! – esclama la Marchesa, – si trova nella miseria e non ha bisogno di me!
– No, signora, non ho bisogno di lei, ma qualora la Provvidenza volesse servirsi di lei per aiutarmi, ne approfitterei ben volentieri, e gliene sarei riconoscente.
– No! No! A don Bosco niente. Non mi venga più innanzi, perché gli chiuderei la porta in faccia.
Don Bosco se ne partì inchinandola profondamente. La Marchesa che, dopo tutto, era donna di insígne pietà e fine criterio, ritornò poco dopo a più miti consigli, e tratto tratto mandava a don Bosco le sue generose offerte.
Incredibile affetto Tutti i giovani che, anche per una volta sola, si incontravano con don Bosco e lo sentivano parlare, erano presi per lui da un incredibile affetto.
Nel 1846, per consiglio dei medici, si era recato a Sassi, borgata nei pressi di Torino, per un poco di riposo. In quel tempo, gli allievi delle Scuole Cristiane avevano atteso ad un corso di Esercizi Spirituali, durante il quale quasi nessuno si era confessato, in attesa della venuta di don Bosco.
Giunto il mattino della chiusura, quei buoni ragazzi, vedendo che don Bosco non arrivava, corsero a cercarlo a Valdocco e di là a Sassi, ove arrivarono a gruppi di 50 o 60, in numero di oltre 300, molli di sudore, coperti di zacchere perché il tempo era piovoso, e così stanchi e sfiniti da fare pietà.
Don Bosco, al vedere quella turba e al sentirne il motivo, ne fu teneramente commosso. Siccome poi quei poveri giovani erano digiuni e sprovvisti di tutto, il buon Parroco mise fuori pane, polenta, riso, patate, cacio, frutta. A lui si unirono i borghigiani, e la cosa finì in una festa campagnola delle più amene.
Fiori e fiori La sua bontà e squisitezza d’animo lo rendeva caro a tutti, di modo che era da tutti grandemente amato. Una splendida prova di questo grande amore la ebbe quando, dopo una lunga e terribile malattia che lo portò sull’orlo della tomba, poté ritornare in mezzo ai suoi giovani. Fu una giornata di festa straordinaria. In quella mattina, furono comperati quanti più fiori si poté, e si sparsero per tutta la via dal Rifugio all’Oratorio. Le rivendugliole di Porta Palazzo, meravigliate di tanti giovani che venivano a comperare fiori, domandarono: – Per chi sono tanti fiori?
– Che festa fate? – Che santo è oggi?
– Che santo! Che santo! Sono per don Bosco. Egli è guarito da una grave malattia; oggi ritorna fra noi! E correvano affannosi a sfogliarli lungo il percorso e adornarne le siepi e il recinto dell’Oratorio. Quando poi don Bosco comparve appoggiato a un bastoncino, fu un evviva formidabile; anzi i più grandicelli gli si fecero attorno, e tolta da una casa una sedia lo obbligarono ad adagiarsi e lo portarono fino all’Oratorio, mentre gli altri gli marciavano avanti, accanto, appresso, sempre ripetendo: Evviva!… Evviva!
È creduto pazzo Né solo le Autorità civili molestavano il povero don Bosco e tentavano d’impedire lo sviluppo della sua Opera, ma anche i suoi colleghi sacerdoti.
Anzi costoro si erano messi in testa che don Bosco stesse dando i numeri, e che tutto questo affaccendarsi appresso ai ragazzi fosse una vera mania.
Alcuni, infatti, andarono a trovarlo e, con tutta carità, presero a dirgli: – Caro don Bosco, tu, capiscilo, comprometti il carattere sacerdotale! Con le tue stravaganze, con l’abbassarti a prendere parte ai giochi di quei monelli, con l’accompagnarti con loro per le vie e per le piazze, perdi il tuo decoro, desti ammirazione, ti fai ridere appresso!
E siccome don Bosco, sicuro dell’Opera sua, dava segno di non essere persuaso della logica di quegli avvisi, essi andavano continuando: – Ma tu hai perso la testa! Non ragioni più! Povero e caro don Bosco, non bisogna ostinarsi… Tu non puoi fare l’impossibile! Non vedi che anche la Provvidenza è contraria alla tua opera e che non trovi nessuno che ti voglia affittare un locale?
– Oh la Provvidenza! – esclamò a questo punto don Bosco alzando le mani al cielo, – la Provvidenza mi aiuterà! Lei mi ha inviati questi ragazzi ed io non ne respingerò neppur uno, ritenetelo bene! Voi siete in errore. La Provvidenza farà tutto ciò che è necessario. E poiché non mi si vuole affittare un locale, ne fabbricherò uno io con l’aiuto di Maria Santissima. Vi saranno vasti edifizi, con scuole, laboratori, officine di ogni specie, spaziosi cortili e porticati… una magnifica chiesa. E poi, anche chierici, catechisti, assistenti, professori, capi d’arte, e numerosi sacerdoti. Vedrete, vedrete…
All’udire tali parole, quei suoi amici si sentirono profondamente commossi. Essi vi vedevano una prova certa della pazzia del loro amato collega, e se ne andarono crollando il capo e ripetendo fra loro: – Poveretto! Davvero gli ha dato di volta il cervello! Occorre subito provvedere. Don Bosco attendeva gli eventi, pronto ad ogni più dura lotta.
Al manicomio Quei tali, presi gli accordi con la Curia Vescovile, andarono a parlare col Direttore del Manicomio. Ottenuto un posto al creduto pazzo, due di loro, i più svelti e coraggiosi, accettarono di eseguire il pietoso disegno. Presero a nolo una vettura chiusa, si recarono all’abitazione di don Bosco, e, fatti i primi convenevoli, lo invitarono a una passeggiata dicendogli: – Un po’ d’aria ti farà bene, caro don Bosco; vieni, abbiamo qui una carrozza che ci aspetta.
Il Santo si avvide subito del gioco che gli volevano fare, ma accolse l’invito esclamando:
– Corbezzoli!… una carrozza!… Evviva la carrozza!… Veramente non ci sono assuefatto, ma via!… andiamo. Giunti alla vettura, lo invitarono ad entrare per primo; ma egli si scusò dicendo: – No! sarebbe una mancanza di rispetto per parte mia. Favoriscano loro per primi.
Quelli salirono senza alcun sospetto, persuasi che don Bosco li avrebbe seguiti; ma egli, appena li vide dentro, chiuse con fragore lo sportello, gridando al cocchiere: – Presto!… al Manicomio!!!
Il vetturino sferza il cavallo, e più veloce che non si dica, giunge alla mèta ove, trovato il portone spalancato e gli infermieri pronti in attesa, entra di corsa.
Il custode chiude prontamente il portone; gli infermieri circondano la carrozza, aprono gli sportelli e invece di un pazzo ne vedono due.
Quantunque entrambi protestassero energicamente, furono condotti al piano superiore; ed essendo assenti medici e Direttore, perché era l’ora del mezzogiorno, dovettero adattarsi a pranzare coi ricoverati. Solo verso sera, chiarito l’equivoco, poterono essere messi in libertà. La cosa fece in un baleno il giro della città, e da quel giorno si corressero le idee nei riguardi del Santo, e l’ammirazione verso di lui s’accrebbe assai.
Campane che suonano da sé Ad applaudire al fatto del manicomio, e a ridere coi cittadini, si unirono anche le campane della Madonna di Campagna, quasi volessero attestare la grande bontà della Provvidenza che proteggeva il nostro Santo. La Domenica delle Palme, ultimo giorno in cui era permesso a don Bosco di fermarsi in quel prato, egli annunziò ai suoi giovani che si sarebbe andati ad ascoltare la Messa alla Madonna di Campagna, ufficiata dai Cappuccini. La proposta fu accettata con giubilo. Per via si recitò il Rosario, e si cantarono le Litanie e lodi sacre. Quando la lunga schiera di quei 400 ragazzi mise piede nel viale che dà al Convento ecco che le campane del Santuario presero a suonare a festa.
La cosa destò ammirazione. La gente del rione accorse alla chiesa; accorsero anche i frati tutti, chiedendo il perché di quei suoni, chi ne fosse l’autore, chi li avesse ordinati.
Ma nessuno aveva dato ordini, nessuno aveva toccato le campane, e si dovette constatare che veramente le campane avevano suonato da sé!
Don Bosco era confuso per la protezione così palese della Provvidenza.