Carissimo padre Aldo, mi chiamo Marinella. Un amico ci ha girato una lettera che hai scritto, dicendoci: «Che testimonianza! Lascia senza parole!». È proprio stato così; l’ho letta e riletta tante volte. L’ho portata in ospedale dove lavoro e ogni tanto la tiro fuori dal cassetto e la riprendo affinché le tue parole possano aiutare il mio cuore a stare “vigile e desto”, nonostante le difficoltà e gli innumerevoli problemi quotidiani. Desidero raccontarti del mio lavoro in ospedale e chiedere un aiuto a te che «ti sei lasciato vincere da Lui». L’unico “motore” è stato ed è la gratitudine per avere dei compagni di viaggio così vivi e certi, testimoni lontani ma vicini: davvero la Provvidenza è grande e ci predilige!
Sono infermiera da circa trent’anni anche se ormai da molto tempo mi occupo di coordinamento in un reparto di chirurgia maxillofacciale. Ho amato da sempre il mio lavoro; dopo il diploma di ragioniera ho capito che ciò che desideravo veramente era stare accanto alle persone più bisognose, in difficoltà e con problemi di salute. Così ho fatto la scuola e ho iniziato a lavorare in ospedale. Non sono certo stati anni semplici: ho vissuto la malattia di mia mamma (grave depressione) e contemporaneamente mi sono sposata e ho avuto due figli.
Durante gli ultimi anni, nella fatica quotidiana di assistere i malati e coordinare il gruppo a me affidato, ho sempre chiesto a Gesù di parlarmi, di farmi vedere che il modo in cui stavo lì poteva fare la differenza per me e per gli altri; non credo sia necessario fare discorsi, promuovere grandi iniziative, gridare ai quattro venti la mia identità cristiana. Ho incontrato malati gravi, famiglie disperate, colleghi arrabbiati con tutto e tutti, insoddisfatti della vita; ma più pregavo di essere Suo strumento, più accadevano incontri spettacolari e cresceva in me la consapevolezza di essere veramente segno di un Altro presente.
Alcuni mesi fa è iniziata una grande riorganizzazione nella nostra azienda sanitaria a causa delle enormi difficoltà economiche. Il direttore generale ha chiesto a noi coordinatori un impegno nuovo: allontanarci dai reparti e dall’attività assistenziale per poter lavorare a pieno regime sulla riorganizzazione e sull’ottimizzazione delle poche risorse. Ho dovuto, mio malgrado, lasciare la corsia, i miei malati, ciò che più amo del mio lavoro ma… nessuno mi ha chiesto se ero d’accordo. Durante il primo mese piangevo ogni mattina e alla sera quando tornavo a casa. La ferita era dolorosissima e io gridavo ogni giorno: «Signore il mio sì è a te, non al direttore generale; ma ti prego, non farmi sopravvivere, io voglio vivere da protagonista!». Devo riconoscere ancora una volta che Lui ha risposto attraverso piccoli segni dentro ad alcuni rapporti (persino con il direttore generale!) ma nonostante questo la mia fatica è sempre la stessa.
Mi manca il mio lavoro di prima e quando mi accade di passare in reparto, di rispondere al sorriso di un malato che mi saluta o di rispondere a una richiesta di aiuto, il dolore ritorna imponente. Allora rilancio la domanda: «Gesù, fammi capire cosa vuoi da me. Ti prego, rispondi e fallo in modo che capisca!». Le tue parole mi hanno scaldato il cuore e ho bisogno di risentirle tutti i giorni! «Nella mia impotenza è ancora più presente l’onnipotenza di Gesù. Io sono solo una presenza, la Provvidenza si occupa di rispondere. Amici, è vero, Gesù mi chiede tutto, ma che bello vedere ciò che fa per noi, come lui conduce quest’opera».
La preghiera alla Madonna
Avrei tanto desiderio di vedere la clinica nuova, parlare con i tuoi malati e con le persone di buona volontà che ti sostengono con tanto amore e riconoscenza. Mi commuovo pensandoti stanco, sofferente, ma seduto davanti alla grotta della Madonna della medaglia miracolosa a raccontarle della tua sofferenza, come un figlio che si rivolge a colei che lo ama più della sua vita. È così che voglio imparare sempre di più a stare, a offrire la mia fatica per un luogo preciso, per degli amici lontani che non conosco, per quei malati che mi sono stati tolti e per quelli che non conoscerò mai ma che hanno tanto bisogno delle mie preghiere. Caro padre Aldo, tu e i tuoi malati sarete sempre presenti nella mia preghiera e, ciò che ci unisce, possa essere la “medicina” che allevia il vostro dolore e rende sempre più certa la vostra speranza. Con affetto e gratitudine.
Marinella
Cara amica, sono appena tornato in Paraguay dall’Italia portando finalmente con me la risposta da parte degli specialisti alla mia situazione di salute. Sono stati necessari due anni di analisi per arrivare a una conclusione: Spondilopatia iperostosante dismetabolica, un invecchiamento precoce e rapido delle ossa e dei tendini. Una strada irreversibile e sempre più difficile e – forse – dolorosa, nella quale l’unico aiuto medico per frenarla un pochino sarebbe la fisioterapia e il tentativo giornaliero di camminare, quello che a me risulta più difficile. Questi due anni di incertezza durante i quali i medici continuavano a fare ipotesi diverse e a fare controlli ogni sei mesi, sono stati permessi dal buon Dio per allenarmi ad affrontare l’attuale situazione.
Non sono stati facili, non sono mancate le domande, specialmente quella del perché Dio ha permesso che trasferissero padre Paolino dal Paraguay, il colpo più duro di questi 25 anni di missione. Immaginatevi cosa ha potuto significare per la mia debole persona trovarmi quasi all’improvviso senza quell’amico, compagno di una storia nella quale Dio ha edificato la sua cittadella della carità in Paraguay! È come se una montagna fosse caduta sulle mie spalle, lasciandomi con la sola capacità di gridare: perché? Col tempo ho capito che nulla sarebbe cambiato nella mia vita, né per la malattia, né per la partenza di Paolino.
Solo le attività fisiche si sono ridotte in favore della suprema attività che è la contemplazione del volto di Cristo nei malati, nei bambini e negli anziani abbandonati. Mai come in questo momento, nel quale nessuno può sostituirsi alla mia responsabilità e libertà, verifico in ogni istante la bellezza dolorosa della mia consegna totale a Cristo col desiderio che quanti mi stanno vicino prendano sul serio e riconoscano la grazia della quale Gesù mi ha reso partecipe: stare con Lui sulla croce.
Una lotta drammatica
Il mio unico grande dolore è quello di vedere i dubbi, la mancanza di fede di molti compagni di cammino che, persino dopo anni di miracoli, non credono nella presenza eucaristica e si lasciano trascinare dal proprio orgoglio, quell’orgoglio che è l’essere convinti che tutto dipenda da noi. Perciò, cara Marinella, il problema non sta nel fatto che ti abbiano dato una responsabilità diversa, ti abbiano spostata da un lavoro più corrispondente a un altro più tecnico. Il problema sta nella tua libertà, nel fatto che riconosca in questa nuova condizione la presenza del Mistero che ti fa.
Quante volte abbiamo ascoltato don Carrón riaffermare la coscienza che don Giussani aveva delle circostanze: «Come fattori costitutivi della nostra vocazione!». Tuttavia opponiamo sempre una resistenza a questa provocazione, perché determinati dalle immagini, dalle fantasie, dalla simpatia o antipatia che proviamo per ciò che accade. A parole continuiamo a ripetere le definizioni, ma quando la vita ci obbliga a lasciare le definizioni e a riconoscere o respingere la modalità con la quale il Mistero si manifesta, spesso noi lo respingiamo, rimanendo eternamente adolescenti.
Guardandomi in azione scopro tutta la mia debolezza, la mia impotenza, spesso mi afferra anche l’angoscia e la rabbia verso persone preoccupate più di “salvare” le istituzioni che la persona. Persone che parlano di carità e sono come pietre, altre che in nome dell’amicizia non conoscono la discrezione e pretendono di possedere la tua vita. Tuttavia è questa la strada che Gesù ha scelto per me, il mio unico compito sarà abbracciarla, guardando con ironia tutto me stesso. Cara Marinella, la cosa bella è che, grazie al tuo direttore generale stai imparando a dire sì a Gesù.
Grazie a una circostanza apparentemente negativa hai cominciato a vivere con positività la vita. Altrimenti la tua vita sarebbe stata piatta, borghese, avresti già perso il gusto per tutto. Quando l’uomo non grida più, significa che è caduto nella comodità, nella routine di una vita senza sapore. È quello che scopro in ogni momento della mia vita, quando nel tentare qualunque movimento, il mio fisico risponde con un malessere e la mia libertà grida: «Signore aiutami», scoprendo la grazia della certezza che anche in questa situazione «Io sono Tu che mi fai».
La vita è una battaglia tra la nostra misura e la volontà di Dio. È una lotta dolorosa, drammatica. Eppure, se lasciamo che sia Cristo a vincere, noi vinceremo con lui. Il vertice della fecondità è morire come Gesù, immolato sull’altare della Croce, obbedendo alla volontà del Padre che chiede a ciascuno, anche se in modo diverso, di seguire il cammino di suo Figlio.
Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).
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