Lettera sul carisma di discernimento (Sant’Ignazio di Loyola 12 febbraio 1536)

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Domenichino, Public domain, via Wikimedia Commons

La riconoscenza aveva spinto Ignazio a scrivere una lunga lettera a Isabella Roser (leggi qui). Nella presente al Cassador ritroviamo lo stesso sentimento di gratitudine e questa volta nei riguardi dell’intera città di Barcellona.

Il Cassador era arcidiacono di Barcellona e sarà nominato vescovo della stessa città nel 1546.

Proveniva da famiglia germanica il suo vero nome era Jaeger e aveva aiutato Ignazio durante il suo soggiorno a Parigi. Il santo gli scrive adesso da Venezia, dove si trova per attendere i compagni e recarsi con loro a Gerusalemme, sogno che non si avvererà.

Tra i diversi argomenti che tratta, senza dubbio i più importanti sono il terzo, in cui, dando alcuni consigli per il testamento di un amico gravemente infermo, ne approfitta per inculcare il distacco dai beni terreni; e il sesto, nel quale parla della riforma del monastero di S. Chiara, riforma che reputa urgente e importante. Dalle considerazioni sulla riforma poi passa a quelle sul discernimento degli spiriti cogliendo bene le diverse situazioni spirituali delle anime. Spiega, infine, perché Dio a volte permette che persone consacrate al suo servizio vengano provate da inquietudini e tormenti, azione provvidenziale che si fonda sull’insondabile mistero della santità e sapienza divina.

A GIACOMO CASSADOR
Venezia, 12 febbraio 1536-MI Epp I 93-9

IHS La grazia e l’amore di Cristo N. S. siano sempre in nostro favore e aiuto. Letta la sua del 5 gennaio ne ho provato non soltanto piacere, ma anche molto dolore apprendendo cose sì opposte e contraddittorie che hanno provocato in me effetti diversi e contrari: gioia nel vedere lo zelo tanto buono che Dio N. S. le dà di piangere con chi piange non solo nelle infermità corporali, ma maggiormente in quelle spirituali; molto dolore considerando le cose tanto tristi, di cui nella sua. In essa intanto si trovano cinque o sei questioni, cui devo rispondere. Comincerò dalle meno elevate e che meno estinguono la sete delle nostre anime per non restare col sapore e il gusto di cose che meno riguardano la nostra salute eterna.

Prima: mi dice che non mancherà di mandarmi il suo abituale contributo; che io devo solo avvisare quando. Isabella Roser mi ha scritto che sino all’aprile prossimo mi provvederà perché io completi i miei studi. Mi pare sia meglio così in modo che possa procurarmi per tutto l’anno alcuni libri e altre cose necessarie. Intanto, benché qui la vita sia cara e il mio stato di salute non mi permetta di sopportare indigenza né fatiche fisiche più di quelle inerenti allo studio, mi trovo abbastanza provvisto, perché Isabella Roser mi ha fatto versare qui a suo conto dodici scudi oltre l’elemosina che gentilmente da costì mi ha inviato per amore e servizio di Dio N. S. Spero che egli compenserà con buona moneta tutto, non solo il bene che mi fa, ma pure la grande sollecitudine che si prende della mia penuria: non penso infatti che i genitori verso i loro figli naturali ne possano avere maggiore. Quindici giorni prima di Natale mi ammalai e rimasi per sette giorni a letto a Bologna con dolore di stomaco, brividi e febbre. Perciò decisi di venire a Venezia, dove mi trovo da un mese e mezzo. La mia salute è migliorata considerevolmente; vivo nella casa e in compagnia di un uomo molto dotto e buono1. Mi sembra che non poteva andare meglio per me in tutte queste circostanze.

Seconda: la notizia che i suoi tre nipoti hanno lasciato Mauble non mi ha inquietato molto. Gradirei tuttavia sapere quale sia il motivo. Spero di conoscerlo presto, perché ho scritto ad uno dei miei amici a Parigi che li veda e li visiti a nome mio. Ho detto che non mi sono inquietato perché, se non m’inganno, sono rispettabili e rispettosi. Perciò penso che, in qualunque situazione si troveranno, sapranno comportarsi bene. Mentre mi trovavo là, vedevo che Losada, seguendo l’esempio degli altri due più grandi, specialmente di Giacomo, stava calmo. Spero in Dio N. S. che essi facciano il loro dovere. Piaccia a lui, nella sua totale e somma bontà, di volerli guidare sempre con la sua mano.

Terza: come mi ha domandato e, nel nostro vero Signore, comandato a proposito della malattia del signor Claret2, ho creduto bene scrivergli. Potrà vedere tutto il resto nella mia lettera, perciò non mi resta da dire niente in questa. Desidero solo che l’aiuti a disporre della sua salute interiore e di tutto il resto che Dio N. S. gli ha dato in questa vita. Nessun altro penso sarà meglio ascoltato. Siccome non ha figli né altri parenti prossimi, cui per legge sia obbligato a lasciare, mi pare senza alcun dubbio che la cosa migliore e più ragionevole sia dare a colui da cui tutto ha ricevuto, cioè al nostro universale donatore, governatore e signore, per opere pie, giuste e sante. È meglio dare quanto potrà in questa vita che dopo. Che uno lasci ad un altro di che nutrire cavalli e cani da caccia, onori e fasti mondani, non posso consentirlo. S. Gregorio rileva, tra altri, due gradi di perfezione3: uno quando si lascia tutto ciò che si ha ai parenti e si segue Cristo N. S.; l’altro, ritenuto maggiore, quando, lasciando tutto, si distribuisce ai poveri secondo il consiglio: «Se vuoi essere perfetto, ecc.»4. Intendo sia meglio dare ai poveri quando la necessità non è uguale tra parenti e poveri non parenti; a parità di condizione, si deve fare più per i parenti che per gli altri non parenti.

Quarta: il desiderio che manifesta di vedermi costì e in predicazione pubblica, ce l’ho pure io profondamente in me. Non che io abbia la pretesa di fare quanto gli altri non possono o di arrivare là dove gli altri giungono; vorrei solo come uomo dappoco predicare temi accessibili, facili e umili, sperando in Dio N. S. che, seguendo le vie più umili, avremo la grazia di poter progredire un po’nella lode e nel servizio che gli sono dovuti. Perciò, terminati i miei studi fra un anno a partire dalla presente quaresima, spero di non fermarmi, per predicare la sua parola, in nessun altro luogo della Spagna prima di esserci visti costì, secondo il nostro comune desiderio. Perché mi pare di aver maggior debito verso codesta popolazione di Barcellona che verso alcun altro popolo di questo mondo. Tutto ciò, beninteso, salvo errore da parte mia, se Dio N. S. non mi pone fuori di Spagna in lavori più penosi e più duri per me. Ma ancora non sono certo né dell’una né dell’altra cosa. Tuttavia sarà sempre per predicare nella povertà, senza le comodità imbarazzanti che ho attualmente durante gli studi. Checché sia, come segno di quanto dico, finiti i miei studi, presto invierò costì, dove sta, i pochi libri che ho o potrei avere, come a Isabella Roser ho promesso di fare.

Quinta: lei m’informa che ha scritto alla «beata»5, desiderando che ci vediamo costì e pensando che l’incontro a cuore aperto possa procurarci gioia. Certo io trovo, ed è regola generale per me, che quando m’incontro con qualcuno, anche se grande peccatore, per comunicare le cose di Dio N. S., sono io a guadagnarci e a trarne profitto. Tanto più poi quando tratto con persone che Dio si è scelto per servirlo, sono io che ne guadagno considerevolmente sotto tutti gli aspetti. Certo, dopo che il dottor Castro6 mi ha parlato a lungo di quest’anima, sapendo che è nelle sue mani, ho sempre nutrito molto affetto per essa, glorificando Dio N. S. per quanto opera in lei. E spero da Dio che ci farà incontrare presto, se da ciò deriverà servizio e lode a lui e a noi maggior profitto spirituale.

Sesta :a proposito delle notizie che mi dà sul monastero di Santa Chiara7, veramente non stimerei cristiano chi non si sentisse l’anima trafitta vedendo si grande crepa nel servizio di Dio N. S. Non mi preoccupa tanto la mancanza di giudizio di una sola persona, quanto il danno che ne proviene a molti altri che si potrebbero applicare al servizio divino. Infatti, data la nostra miseria noi proviamo tanta difficoltà nel vincere noi stessi nella qual cosa si trova il maggior progresso che basta una piccola occasione a gettarci giù. Certo desidererei molto trovarmi tra quelle religiose, se potessi in qualche modo gettare le fondamenta dei loro esercizi monastici e del loro modo di procedere, specialmente per quella persona che si vede in tanta angustia e pericolo. Difatti non posso credere facilmente che una persona, la quale si lasci andare verso i piaceri del mondo o sia meno attaccata a Dio N. S. e che abbia il suo buonsenso e giudizio, possa giungere a un tale stato di disperazione perché vuole servire e attaccarsi maggiormente a Dio N. S.

Io, che sono umano e debole, se qualcuno venisse per servirmi e per amarmi di più, per quanto dipendesse da me e ne avessi la forza non sarei capace di lasciarlo giungere a tale disastro. Quanto più Dio N. S. Che, essendo divino, volle farsi umano e morire per la salvezza di tutti noi. Non posso quindi ammettere che per il suo zelo delle cose divine, senza altro motivo interno o futuro, giunga a tanto supplizio e a tanto male. È proprio di Dio infatti dare giudizio e non toglierlo, speranza e non sfiducia. Dico «senza altro motivo interno», perché è possibile che la sua anima durante gli esercizi di pietà sia stata piagata di peccato. Le forme di peccato sono innumerevoli.

Può darsi che la piaga si trovi nel modo di procedere negli esercizi: non tutto ciò che pare buono è tale. E così, siccome in tale persona il bene non poteva coesistere col male, né la grazia col peccato, il nemico ha potuto operare molto. Dico pure «senza altro motivo futuro» perché, avendo Dio N. S. disposto tutte le cose con ordine, peso e misura8, è possibile che abbia visto che quest’anima, anche se in grazia per allora, non avrebbe profittato dei doni e favori ricevuti e, non perseverando, sarebbe venuta a maggiori peccati e infine si sarebbe persa. Il Signore nostro benignissimo, per ricompensare questo breve servizio, ha forse permesso questi timori e continue tentazioni vegliando sempre che non perisca. Dobbiamo infatti presumere sempre che tutto ciò che il Signore del mondo opera nelle anime razionali sia o per dare a noi più gloria o perché non diventiamo molto cattivi, dato che non trova in noi capacità a fare di più. Infine, come noi non conosciamo i fondamenti e le cause dell’operare di Dio, così non possiamo determinarne gli effetti. Perciò per noi non solo e sempre molto utile vivere nell’amore, ma e anche molto salutare vivere nel timore. I giudizi di Dio sono difatti totalmente insondabili né possiamo domandar conto della sua volontà. Non ci resta che piangere e pregare per un maggior benessere della coscienza di quest’anima e di tutte le altre. La sua divina bontà voglia così disporre e non permettere che il nemico dell’umana natura riporti tanta vittoria contro quelle anime che essa si è acquistate a sì caro prezzo con il suo preziosissimo sangue e ha riscattate totalmente. Finisco pregando che per la sua infinita bontà ci dia grazia completa perché sentiamo la sua santissima volontà e la compiamo interamente.
Povero di bontà
Iñigo (Sant’Ignazio di Loyola)

1Quasi certamente mons. Andrea Lippomano: cfr A. MARTINIS. I., Di chi fu ospite s. Ignazio a Venezia nel 1536?, in AHSI 18 (1949) 253260.
2Un ricco signore di Barcellona il quale sopravvisse a questa malattia.
3In Ezechielem, 1. II, hom. 8, 4: PL 76, 1029 D1030 A.
4Mt 19, 21.
5Nel senso di donna buona e devota; essa è rimasta sconosciuta.
6Giovanni Castro aveva ricevuto a Parigi gli Esercizi. In seguito entrò nella Certosa di Vall de Cristo, presso Segorbe, dove fu visitato da Ignazio nel 1535.
7Cfr lettera 1.

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Il somaro di Brina (dalle Memorie di Don Bosco)

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Chiedo che il mio cuore diventi sempre più povero