Il Giovedì Santo è per noi un’occasione per chiederci sempre di nuovo: A che cosa abbiamo detto “sì”? Che cosa è questo “essere sacerdote di Gesù Cristo”? Il Canone II del nostro Messale, che probabilmente fu redatto già alla fine del II secolo a Roma, descrive l’essenza del ministero sacerdotale con le parole con cui, nel libro del Deuteronomio (18, 5. 7), veniva descritta l’essenza del sacerdozio veterotestamentario: “astare coram te et tibi ministrare”. Sono quindi due i compiti che definiscono l’essenza del ministero sacerdotale: in primo luogo lo “stare davanti al Signore”.
Nel Libro del Deuteronomio ciò va letto nel contesto della disposizione precedente, secondo cui i sacerdoti non ricevevano alcuna porzione di terreno nella Terra Santa – essi vivevano di Dio e per Dio. Non attendevano ai soliti lavori necessari per il sostentamento della vita quotidiana. La loro professione era “stare davanti al Signore” – guardare a Lui, esserci per Lui. Così, in definitiva, la parola indicava una vita alla presenza di Dio e con ciò anche un ministero in rappresentanza degli altri. Come gli altri coltivavano la terra, della quale viveva anche il sacerdote, così egli manteneva il mondo aperto verso Dio, doveva vivere con lo sguardo rivolto a Lui.
Se questa parola ora si trova nel Canone della Messa immediatamente dopo la consacrazione dei doni, dopo l’entrata del Signore nell’assemblea in preghiera, allora ciò indica per noi lo stare davanti al Signore presente, indica cioè l’Eucaristia come centro della vita sacerdotale. Ma anche qui la portata va oltre. Nell’inno della Liturgia delle Ore che durante la quaresima introduce l’Ufficio delle Letture – l’Ufficio che una volta presso i monaci era recitato durante l’ora della veglia notturna davanti a Dio e per gli uomini – uno dei compiti della quaresima è descritto con l’imperativo: “arctius perstemus in custodia” – stiamo di guardia in modo più intenso. Nella tradizione del monachesimo siriaco, i monaci erano qualificati come “coloro che stanno in piedi”; lo stare in piedi era l’espressione della vigilanza.
Ciò che qui era considerato compito dei monaci, possiamo con ragione vederlo anche come espressione della missione sacerdotale e come giusta interpretazione della parola del Deuteronomio: il sacerdote deve essere uno che vigila. Deve stare in guardia di fronte alle potenze incalzanti del male. Deve tener sveglio il mondo per Dio. Deve essere uno che sta in piedi: dritto di fronte alle correnti del tempo. Dritto nella verità. Dritto nell’impegno per il bene. Lo stare davanti al Signore deve essere sempre, nel più profondo, anche un farsi carico degli uomini presso il Signore che, a sua volta, si fa carico di tutti noi presso il Padre. E deve essere un farsi carico di Lui, di Cristo, della sua parola, della sua verità, del suo amore. Retto deve essere il sacerdote, impavido e disposto ad incassare per il Signore anche oltraggi, come riferiscono gli Atti degli Apostoli: essi erano “lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù” (5, 41).
Passiamo ora alla seconda parola, che il Canone II riprende dal testo dell’Antico Testamento: “stare davanti a te e a te servire”. Il sacerdote deve essere una persona retta, vigilante, una persona che sta dritta. A tutto ciò si aggiunge poi il servire.
Nel testo veterotestamentario questa parola ha un significato essenzialmente rituale: ai sacerdoti spettavano tutte le azioni di culto previste dalla Legge. Ma questo agire secondo il rito veniva poi classificato come servizio, come un incarico di servizio, e così si spiega in quale spirito quelle attività dovevano essere svolte.
Con l’assunzione della parola “servire” nel Canone, questo significato liturgico del termine viene in un certo modo adottato – conformemente alla novità del culto cristiano. Ciò che il sacerdote fa in quel momento, nella celebrazione dell’Eucaristia, è servire, compiere un servizio a Dio e un servizio agli uomini. Il culto che Cristo ha reso al Padre è stato il donarsi sino alla fine per gli uomini. In questo culto, in questo servizio il sacerdote deve inserirsi.
Così la parola “servire” comporta molte dimensioni. Certamente ne fa parte innanzitutto la retta celebrazione della Liturgia e dei Sacramenti in genere, compiuta con partecipazione interiore. Dobbiamo imparare a comprendere sempre di più la sacra Liturgia in tutta la sua essenza, sviluppare una viva familiarità con essa, cosicché diventi l’anima della nostra vita quotidiana. È allora che celebriamo in modo giusto, allora emerge da sé l’”ars celebrandi”, l’arte del celebrare. In quest’arte non deve esserci niente di artefatto. Deve diventare una cosa sola con l’arte del vivere rettamente.
Se la Liturgia è un compito centrale del sacerdote, ciò significa anche che la preghiera deve essere una realtà prioritaria da imparare sempre di nuovo e sempre più profondamente alla scuola di Cristo e dei santi di tutti i tempi. Poiché la Liturgia cristiana, per sua natura, è sempre anche annuncio, dobbiamo essere persone che con la Parola di Dio hanno familiarità, la amano e la vivono: solo allora potremo spiegarla in modo adeguato. “Servire il Signore” – il servizio sacerdotale significa proprio anche imparare a conoscere il Signore nella sua Parola e a farLo conoscere a tutti coloro che Egli ci affida.
Fanno parte del servire, infine, ancora due altri aspetti. Nessuno è così vicino al suo signore come il servo che ha accesso alla dimensione più privata della sua vita. In questo senso “servire” significa vicinanza, richiede familiarità. Questa familiarità comporta anche un pericolo: quello che il sacro da noi continuamente incontrato divenga per noi abitudine.
Si spegne così il timor riverenziale. Condizionati da tutte le abitudini, non percepiamo più il fatto grande, nuovo, sorprendente, che Egli stesso sia presente, ci parli, si doni a noi. Contro questa assuefazione alla realtà straordinaria, contro l’indifferenza del cuore dobbiamo lottare senza tregua, riconoscendo sempre di nuovo la nostra insufficienza e la grazia che vi è nel fatto che Egli si consegni così nelle nostre mani. Servire significa vicinanza, ma significa soprattutto anche obbedienza.
Il servo sta sotto la parola: “Non sia fatta la mia, ma la tua volontà!” (Lc 22, 42). Con questa parola, Gesù nell’Orto degli ulivi ha risolto la battaglia decisiva contro il peccato, contro la ribellione del cuore caduto. Il peccato di Adamo consisteva, appunto, nel fatto che egli voleva realizzare la sua volontà e non quella di Dio. La tentazione dell’umanità è sempre quella di voler essere totalmente autonoma, di seguire soltanto la propria volontà e di ritenere che solo così noi saremmo liberi; che solo grazie ad una simile libertà senza limiti l’uomo sarebbe completamente uomo, diventerebbe divino. Ma proprio così ci poniamo contro la verità. Poiché la verità è che noi dobbiamo condividere la nostra libertà con gli altri e possiamo essere liberi soltanto in comunione con loro.
Questa libertà condivisa può essere libertà vera solo se con essa entriamo in ciò che costituisce la misura stessa della libertà, se entriamo nella volontà di Dio. Questa obbedienza fondamentale che fa parte dell’essere uomini, diventa ancora più concreta nel sacerdote: noi non annunciamo noi stessi, ma Lui e la sua Parola, che non potevamo ideare da soli. Non inventiamo la Chiesa così come vorremmo che fosse, ma annunciamo la Parola di Cristo in modo giusto solo nella comunione del suo Corpo.
La nostra obbedienza è un credere con la Chiesa, un pensare e parlare con la Chiesa, un servire con essa. Rientra in questo sempre anche ciò che Gesù ha predetto a Pietro: “Sarai portato dove non volevi”. Questo farsi guidare dove non vogliamo è una dimensione essenziale del nostro servire, ed è proprio ciò che ci rende liberi. In un tale essere guidati, che può essere contrario alle nostre idee e progetti, sperimentiamo la cosa nuova – la ricchezza dell’amore di Dio.
“Stare davanti a Lui e servirLo”: Gesù Cristo come il vero Sommo Sacerdote del mondo ha conferito a queste parole una profondità prima inimmaginabile. Egli, che come Figlio era ed è il Signore, ha voluto diventare quel servo di Dio che la visione del Libro del profeta Isaia aveva previsto. Ha voluto essere il servo di tutti. Ha raffigurato l’insieme del suo sommo sacerdozio nel gesto della lavanda dei piedi.
Con il gesto dell’amore sino alla fine Egli lava i nostri piedi sporchi, con l’umiltà del suo servire ci purifica dalla malattia della nostra superbia. Così ci rende capaci di diventare commensali di Dio. Egli è disceso, e la vera ascesa dell’uomo si realizza ora nel nostro scendere con Lui e verso di Lui. La sua elevazione è la Croce. È la discesa più profonda e, come amore spinto sino alla fine, è al contempo il culmine dell’ascesa, la vera “elevazione” dell’uomo.
“Stare davanti a Lui e servirLo” – ciò significa ora entrare nella sua chiamata di servo di Dio. L’Eucaristia come presenza della discesa e dell’ascesa di Cristo rimanda così sempre, al di là di se stessa, ai molteplici modi del servizio dell’amore del prossimo. Chiediamo al Signore, in questo giorno, il dono di poter dire in tal senso nuovamente il nostro “sì” alla sua chiamata: “Eccomi. Manda me, Signore” (Is 6, 8). Amen.
Omelia di Benedetto XVI pronunciata in San Pietro la mattina del 20 marzo 2008, giovedì santo, nella messa del sacro crisma con cui si ordinano i sacerdoti.