E’ successo nove anni fa, avevo dei problemi economici, ho deciso di registrarmi on line ad un sito per madri surrogate. Tra le varie coppie ne ho scelta una gay, che ho incontrato. Mi sono piaciuti, ho firmato il contratto e ho fatto la surrogazione, il compenso è stato di 8mila dollari. La gravidanza è andata bene, erano carini, eravamo d’accordo che avrei mantenuto un rapporto con la bambina, ma dopo il parto hanno cambiato atteggiamento. Non mi hanno più permesso di vederla, non ho più notizie di lei. Da quando ho testimoniato al Senato americano contro la maternità surrogata mi hanno impedito di vederla».
A raccontare una storia di utero in affitto finita male, in una sala di Palazzo Madama, è Elisa Anna Gomez, una donna americana diventata una sorta di testimonial contro la pratica della surrogacy, cui hanno fatto ricorso anche il leader di Sel Nichi Vendola e il suo compagno per far nascere un bambino in una clinica californiana, spaccando in due l’opinione pubblica e creando fratture anche a sinistra. La storia di Anna Gomez è contestata dagli ambienti Lgbt che ne mettono in dubbio la veridicità, per il motivo che della sua vicenda non avrebbero parlato i media americani.
L’Associazione ProVita che ha organizzato l’incontro al Senato risponde che negli Usa, dove la pratica è legale in otto Stati, i casi del genere fanno meno notizia proprio perché sono frequenti (un documentario che ProVita sta doppiando in Italiano, Breeders, a Subclass of Women, ne racconta parecchi).
Elisa Gomez è testimone diretta della difficoltà a cui può andare incontro la madre surrogata quando deve lasciare il bambino appena partorito e consegnarlo ai «genitori committenti», come vengono definite nei «contratti di gestazione» le coppie che si rivolgono alle cliniche specializzate nella surrogacy. «Ho avuto la mia bambina e subito mi sono sentita legata a lei – racconta – Lei era mia figlia e io sapevo che non potevo lasciarla andare. Ero esausta e confusa.
Mi sentivo come se la mia bambina fosse morta. La coppia ha improvvisamente tagliato le comunicazioni e ha lasciato lo Stato senza darmi alcuna informazione. Nessuno dei due era sul certificato di nascita, è come se me l’avessero rapita. Ho contattato le autorità, ma sono stata trattata come se mia figlia non fosse mia».
Dopo una causa legale per il riconoscimento della figlia e il parziale risultato di poterla vedere per quattro ore al mese, la donna racconta di non vedere più la figlia da due anni e mezzo. Nel frattempo la Gomez ha intrapreso un’azione di denuncia per informare le donne sulla pratica dell’utero in affitto. «Voglio che si sappia – spiega – che moltissime madri surrogate sono nella mia stessa situazione, vengono minacciate, costrette al silenzio, cadono in una depressione profonda. Il mondo dell’utero in affitto non ha niente a che fare con la generosità, tutto ruota intorno ai bisogni degli adulti, non ai bambini».
Se le chiedono cosa direbbe ad una donna favorevole a prestare il suo utero, lei risponde. «Le direi di non usare il suo corpo come mezzo, i bambini non possono essere comprati e venduti, non possiamo togliere i loro diritti prima che nascano. E poi le direi: la schiavitù in America è stata abolita».