Scott Routley era un giovane canadese trentanovenne che per 12 anni è stato considerato in stato “vegetativo” (vedi sotto, per capire le virgolette di “vegetativo”), in seguito ad una lesione cerebrale gravissima. Da quel momento non ha più mostrato segni di consapevolezza fino a quando alcune analisi innovative hanno portato nel 2012 ad una scoperta incredibile: Scott era cosciente e ha comunicato che non provava dolore.
Nel 2013 Scott è morto per un peggioramento del suo stato di salute.
Scott Routley era considerato in stato “vegetativo” in seguito ad una lesione cerebrale gravissima.
Un team di medici guidato dal neurologo Adrian Owen ha monitorato l’attività cerebrale di Scott tramite risonanza magnetica, chiedendogli di immaginare diverse attività. Inaspettatamente, Scott ha dimostrato di essere cosciente, di pensare e di comprendere tutto, nonostante l’apparente stato vegetativo.
Adrian Owen, insieme ai colleghi M. Coleman, M. Boly, M. Davis, S. Laureys e J. Pickard, è un esperto rinomato nel campo delle neuroscienze. Già nel 2006 aveva pubblicato sulla prestigiosa rivista «Science» (n. 313, p. 1402) uno studio intitolato Detecting Awareness in the Vegetative State, in cui descriveva il caso di Judy, una giovane inglese considerata in stato vegetativo ma che mostrava segni di coscienza. Owen aveva chiesto a Judy di immaginare di giocare a tennis o di camminare in casa. Sorprendentemente, il suo cervello attivava le stesse aree che si attivano nei soggetti coscienti.
Anche Scott, esteriormente immobile e incapace di rispondere, non mostrava segni visibili di consapevolezza. Tuttavia, il suo caso solleva importanti riflessioni sulla dignità umana e sul valore della vita, indipendentemente dal livello di coscienza apparente perchè la mancanza di autocoscienza non priva una persona della sua dignità, e quindi non giustifica in alcun modo la sua soppressione. Scott, anche se non avesse avuto coscienza di sé, rimaneva un essere umano vivente e degno di cure.
Il termine “vegetativo” è infatti problematico perché tende a disumanizzare la persona affetta da questa condizione. Un vegetale non è un essere umano, e l’uso di questa parola rischia di allontanare dalla comprensione dell’umanità del malato.
Come spiegava Aristotele, è la natura di un’entità che ne determina le potenzialità e il comportamento. Un animale, per esempio, non può volare senza avere la natura di un volatile, e un albero non può produrre mele senza essere un melo. Allo stesso modo, una persona non smette di essere tale se, in uno stato di “vegli aresponsiva”, cessa temporaneamente di compiere attività razionali. La cessazione dell’agire non modifica la natura di un essere. Per questo motivo, è più corretto definire questa condizione “sindrome da veglia aresponsiva”, come è ormai comune nel linguaggio medico.
Il caso di Scott serve da monito a chi sostiene l’eutanasia e a chi non si preoccupa di curare adeguatamente i malati gravi: durante il loro apparente stato di incoscienza, molte persone possono essere in grado di comprendere ciò che accade intorno a loro, pur non riuscendo a esprimerlo.
Quante persone sono state forse soppresse con la giustificazione di una “dolce morte”, quando in realtà non riuscivano a comunicare ma percepivano tutto, chiedendo solo cure, vicinanza e il conforto delle persone care?
Due certezze emergono da questi casi:
- Chi sembra privo di coscienza potrebbe in realtà possederla, e questo deve essere considerato nella cura quotidiana delle persone.
- Chi sembra privo di coscienza potrebbe non rimanere in quello stato per sempre, poiché esistono numerosi casi di risveglio anche dopo anni di veglia aresponsiva.
La prudenza è essenziale: non dobbiamo rischiare di togliere la vita a persone che potrebbero essere autocoscienti e che potrebbero riprendersi.