Caro padre Aldo, sono Caterina, la ragazza di 15 anni che soffriva di bulimia, e sono appena tornata dalla vacanza estiva che facciamo con alcune comunità di Gioventù studentesca (Gs) della mia regione. È stata una settimana vissuta alla grande, ogni cosa aveva uno scopo e meritava di essere vissuta al massimo! Con alcune persone ho avuto occasione di fare discorsi così profondi che mai mi sarei immaginata… Ero stata anche “brava” dal punto di vista dei pasti: mangiavo negli orari giusti e in quantità adeguata. Ma ora, tornata a casa, sento il bisogno che Cristo si mostri di nuovo a me, sento il bisogno di riscoprire me stessa e il senso delle cose che faccio. Da ieri ho cominciato di nuovo a mangiare male, negli orari sbagliati e contro la mia volontà! Sono triste, una tristezza quasi infondata. Ho cercato qualche amico perché mi stia vicino, ma la cosa non tiene tutto il giorno: comincio ad isolarmi e quindi la mia finta libertà si sfoga su biscotti e cioccolata. Come fare? Domani comincio l’alternanza scuola-lavoro e non ne ho per niente voglia, mi sembra solo una cosa che mi porta via il mio tempo libero, le mie vacanze. Ma so anche che non deve essere per forza così: dipende da me. Di cosa ho bisogno? Grazie per la tua continua presenza tramite mail, mi richiami sempre ad andare a fondo di quello che vivo.
Caterina
Il titolo del Meeting di quest’anno è stato: “E l’esistenza diventa un’immensa certezza”. Una delle raccolte di conversazioni di don Giussani con gli universitari pubblicata alcuni anni fa si intitolava Certi di alcune grandi cose. E quali sono queste alcune grandi cose, cara Caterina? Guardando la mia vita, che ha conosciuto “l’anoressia” dell’esistenza, arrivando in alcuni momenti perfino a rifiutarla, potrei riassumere queste certezze nell’avventura più bella della mia vita: l’esperienza di cosa significhi prendere sul serio la mia umanità. Questa bella umanità, dolorosa, drammatica, a volte disperata, ma sempre affamata di quel “Tu che mi fai”, sempre offuscata emotivamente, ma sempre presente come certezza. A volte questa certezza, sostenuta grazie ad un abbraccio, l’abbraccio di Giussani prima e di Carrón e di tutti gli altri amici dopo, era più simile ad un lumicino che ad un faro. Quel Tu misterioso è stato per me la sfida quotidiana e continua ad essere tale perché il cuore e la realtà mi provocano continuamente ad accettare la grande battaglia della vita contro la tentazione di lasciarmi definire dallo stato d’animo o dalle circostanze quotidiane. Alzarmi la mattina e riconoscere tutto questo nell’istante in cui apro gli occhi non è mai stato scontato per me. La stanchezza, le fantasie, le preoccupazioni della giornata che inizia, mi hanno distratto e continuano a distrarmi da questa grande Presenza che vuole abbracciarmi. Riconoscerla, lasciarmi abbracciare da Lei urlando: “Io sono Tu che mi fai” nel tempo, lentamente, cambia la prospettiva di vita. Che commozione in questo periodo alzarmi con il pensiero rivolto verso ciò che Dio attraverso Mosè diceva al suo popolo: «Io ti ho scelto tra molti popoli più grandi di te, Israele. E ti ho scelto perché mi sono innamorato di te. Siete miei». O come afferma il profeta: «Prima di formarti nel ventre di tua madre io pronunciai il tuo nome». Né la depressione né la bulimia possono offuscare questo giudizio che riempie la mia vita e può riempire la tua se segui certa, sicura della compagnia nella quale Dio stesso, innamorato di te, ti ha messo. «Di cosa ho bisogno?», mi chiedi. Di una sola cosa: di qualcuno, di un volto che ti guardi come Gesù ha guardato Zaccheo, di qualcuno come questa ragazza – che ha pochi anni più di te – che si è lasciata afferrare da Cristo. La sua testimonianza è l’evidenza di ciò che può compiere la libertà umana quando si lascia abbracciare da Cristo. Non esiste bulimia, anoressia, depressione che possa, se uno lascia uno spiraglio aperto perché Cristo entri nel suo cuore, impedire di sentire l’abbraccio tenero del Mistero che, pazientemente, trasforma la vita in una continua novità piena di pace. Inoltre la grazia del Meeting è una grande possibilità perché tu possa scoprire te stessa attraverso l’abbraccio dei fragili volti che portano in loro i tratti della dolce Presenza di Cristo. Volti umani come quelli di Letizia che si è lasciata afferrare dal fascino della bellezza di Cristo. Non dimenticare quanto afferma Mounier: «È dalla terra, dalla solidità, che deriva necessariamente un parto pieno di gioia e il sentimento paziente di un’opera che cresce, di tappe che si susseguono, aspettate con calma, con sicurezza, occorre soffrire perché la verità non si cristallizzi in dottrina».
Caro padre Aldo, mi chiamo Letizia e sono una universitaria. È da un po’ che desidero scriverle, perché, anche se non ci conosciamo, dal modo in cui lei vive, dalle cose che dice, persino dal modo in cui prende il fiato prima di parlare, io capisco una cosa soltanto: lei vive di Cristo, per Cristo. E per questo, soltanto per questo, lei è mio amico. L’altro ieri, poi, leggendo l’intervista che è stata pubblicata nell’ultimo numero di Tracce mi sono accorta che lei descriveva esattamente quello che mi accade in questo periodo. . Non vivo situazioni particolarmente difficili, ma lei sa meglio di me quanto il dolore si insinui nelle pieghe della vita di ogni giorno. Ebbene, da quando ho incontrato Lui, così corrispondente e rivelativo di tutte le attese del mio cuore, così chiarificatore di tutto il mio io, così gustabile, sperimentabile, così totalmente disponibile a lasciarsi conoscere, così dedito nel perseguirmi, così docile e umile nel piegarsi persino ai miei “no”, così innamorato di me, così paziente nell’aspettarmi, così fedele, sempre, nel rispondermi, io non posso avere paura della realtà. Lui mi ha condotto in questi anni, attraverso vie insospettabili, a diventare sempre più me stessa, e sempre più cosciente di dipendere da Lui, tanto che alla radice della mia gioia o del mio pianto è Lui che io sempre ritrovo. Un paio di settimane fa Gesù mi ha fatto un dono immenso, caro padre. Sono sicura che possa provenire solo da Lui, perché io con tutti i miei sforzi, una cosa così non avrei saputo come immaginarla. Era un giorno ordinario: studio in università, caritativa al pomeriggio, Messa. Tutta la giornata tramata dal dolore, non per qualcosa che colpiva me direttamente, ma per tutto quello che vedevo intorno: i miei amici che si sforzano di ridurre il proprio cuore perché non reggono la sproporzione del loro desiderio, i telegiornali che sguazzano nelle notizie terribili che descrivono, le persone al bar che raccontano di un amico sparito dalla circolazione dopo essersi riempito di debiti ed aver avuto un figlio… un debito anche lui. «Chi gliel’ha fatto fare?», è stato il commento di quei due uomini alla nascita di quel bambino. Io non li conoscevo nemmeno, eppure ho provato una fitta. Oppure, nella casa di riposo in cui vado ogni settimana, gli infermieri che trattano gli anziani come un peso, prendendoli in giro e gridandogli contro quando si lamentano. Io, un tempo, non mi sarei accorta di tutto questo, vivevo in un’ampolla di vetro, nella vita che mi ero costruita, e che è scoppiata non appena quel desiderio, che sempre riaffiorava dalla coltre di macerie con cui veniva ricoperto ogni giorno, ha incontrato Colui che non solo vi risponde, ma che lo genera in continuazione, che lo fa, che mi fa. Così, tutto il male che quel giorno mi è piombato addosso mi ha fatto piangere pensando: «Chissà quanto soffri Tu di tutto questo! Se io, che sono una poveraccia, non posso evitare di vederlo e di sentirlo da quando Tu ti sei fatto conoscere, da quando mi hai mostrato ciò che è bello e vero, quanto devi piangere ogni giorno? E con quanto amore ti dai e ti ridai ancora». Non so come spiegarle, ma il fondo del mio pianto non era scuro, era limpido come acqua di sorgente, limpido perché Cristo ha fatto risplendere di luce la mia vita mostrandomi la Sua luce, e questa, questa sola è l’unica speranza per tutto il mondo, da chi mi è vicino a chi pur lontano è entrato nel mio orizzonte, senza che lo volessi. Padre, il Signore, quel giorno, solo facendomi assaporare la sofferenza e il nulla in cui tutto cade quando la Sua presenza è taciuta o dimenticata, mi ha mostrato il Suo cuore, ha condiviso con me, che sono così poco, lo strazio e il sentimento di bene che nutre per ciascuno di noi. Era il giorno dedicato al Sacro Cuore di Gesù. L’ho scoperto a fine giornata, durante la Messa, mentre in ginocchio, stupita e tremante, dicevo: «Chi sono io per Te?». Davvero Tu hai preparato tutto per me, e davvero non esiste alcuna cosa che non sia per essere più certa e per appartenerTi di più. Sì, perché, quel giorno, anziché andar via dalla casa di riposo annichilita e frustrata, io sono tornata a casa più certa, e con un enorme desiderio di ritornarci. Tutte le volte è così. Tutto è segno di Cristo presente. Chi sono quelle persone vecchie e malate per me? Chi sono quelli lì che non si ricordano mai di me, anche se mi vedono da un anno? Ogni volta è stato scoprire il volto di Cristo su ognuno di loro. Di Cristo che soffre e che mendica acqua come con la Samaritana. E io non so come dirlo perché si capisca, ma scopro che ho bisogno di amare loro per amare Lui. Non perché così penso di essere più buona, ma perché Lui si fa conoscere, misteriosamente, tramite loro. E allora baciarli, accarezzarli, sorridergli, piangere quando stanno male, è fare tutto questo a Lui, e con Lui. Venerdì scorso una signora arrivata da qualche giorno mi ha chiesto di stare un po’ con lei. Era trascurata e maleodorante. Voleva parlare, essere ascoltata. Mentre si lamentava, ho notato che il margine esterno del labbro superiore era molto sporco, chissà da quanto tempo. Per qualche minuto ho lasciato correre, ma non lo sopportavo. Nessuno l’aveva notato, lei non lo sapeva, ma io avevo visto. Come potevo far finta di niente? L’idea di pulirla mi ripugnava, non sono un’infermiera e lei era una sconosciuta, avrei potuto chiamare qualcuno del mestiere. Eppure mi sono alzata di schianto, ho preso una garza con acqua e l’ho pulita. Quella donna era un gioiello prezioso di Gesù dinanzi ai miei occhi, e la sua dignità era infinita: non era accettabile che fosse lasciata così. È scoppiata in lacrime e mi ha chiesto: «Posso abbracciarti?». Padre, non sono così per indole. Quello che per me sarebbe stato impensabile è reso possibile dalla coscienza dell’amore e della pietà che Cristo ha per me, dallo sguardo di tenerezza con cui abbraccia i miei limiti. Perché Lui vive, io posso non avere paura, non sentirmi definita dalla mia incapacità o dal mondo con le sue riduzioni. Ma non è solo questo, quanto più quel Suo sguardo mi definisce, tanto più quello stesso mondo mi vien voglia di abbracciarlo così com’è, tanto più io stessa posso abbracciare me e guardarmi come un valore inestimabile, in quanto voluta e amata da Lui, adesso. Mi viene sempre in mente una cosa che le ho sentito dire una volta, cioè che la carità verso gli uomini è qualcosa che viene dopo. Diceva che solo accogliendo la realtà così com’era aveva potuto un giorno accogliere il cuore della realtà: l’uomo. Diceva che l’accoglienza è quello sguardo di Cristo commosso su di te che non puoi non dare a tutti. Se penso a come Dio si sia servito delle strade tortuose che io avevo intrapreso, allontanandomi sempre di più da me stessa e da Lui, per ricondurmi a Sé e per donarmi molto più di quanto il mio cuore non osava sperare, dico, insieme a lei, che «la realtà è il Suo corpo. Ed è positiva. Sempre». E che quella che viene continuamente accolta sono io.
Letizia
«Se è successo a lui e a lei, perché non a me?», diceva S. Agostino. Auguro a te e a chi mi scrive della propria disperazione di prendere sul serio questa sfida, in cui la verifica della fede nell’istante trasfigura la vita in una grande certezza, riempiendola di commozione e gratitudine.
Aldo Trento – Tempi
Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).
Per abbonarsi : Abbonamento con carta di credito – Tempi