L’ora di mettere l’accento sulla relazione di cura

Nonostante maldestri e interessati tentativi di appropriazione, il messaggio del Papa ai partecipanti al convegno promosso da World Medical Association (Wma) e Pontificia Accademia della Vita non ha modificato la dottrina della Chiesa Cattolica sul fine vita. I richiami al magistero precedente sono in tal senso significativi, trattandosi di documenti penetrati a fondo nella formazione dei sanitari cattolici e nella pastorale della salute, quali il discorso agli anestesisti di Pio XII del 1957, la Dichiarazione sull’eutanasia del 1980 e il Catechismo della Chiesa. Sarebbe tuttavia miope non riconoscere che papa Francesco ha aperto una nuova prospettiva, mettendo risolutamente l’accento sulla relazione di cura, piuttosto che sulla riaffermazione di norme e sui “no” da esse derivanti. Anche per questo è errato vederlo come un endorsement alla ipotesi si normativa sul biotestamento la quale, essa sì, subordina la relazione di cura alla norma giuridica, fino al punto di definire ex lege idratazione e nutrizione come “terapie”, indipendentemente dal contesto clinico, e di restringere la libertà per il medico di agire secondo coscienza. L’intervento del Papa, semmai, valorizza quanto sta maturando nel modo anglosassone dove, dopo 40 anni, si vorrebbe riportare le Dat dall’ambito giuridico a quello della relazione medicopaziente. Consapevole che l’esperienza del morire è divenuta sempre più medicalizzata e impersonale, il Papa si preoccupa di riumanizzare la morte, non certo per affrettarla, ma per de-medicalizzarla e riportarla dentro l’esperienza quotidiana, riempiendo la malattia e la solitudine di cura, di compagnia e di relazioni prima che si arrivi a domandare di morire e contrastando decisamente ogni forma di accanimento terapeutico. Sull’accanimento giudico tuttavia è evidente e rischioso il tentativo di alcuni di non operare distinzioni tra situazioni cliniche molto diverse tra loro. Per un verso, infatti, non si può escludere che talvolta la nutrizione e l’idratazione assistita (Nia) non siano più in grado di raggiungere lo scopo di procurare nutrimento al paziente o di lenirne le sofferenze. È quanto ad esempio può verificarsi nella malattia oncologica terminale.

Da un altro lato, invece, non appare in alcun modo condivisibile l’opinione secondo la quale la Nia possa essere sospesa in uno stato vegetativo che si prolunga indefinitamente, qualora il paziente abbia in precedenza dichiarato tale prospettiva per lui “non accettabile”. I sostenitori di tale opinione ritengono che l’inclusione della Nia fra i trattamenti rifiutabili sia corretta, non potendosi escludere che in casi come questi essa divenga un trattamento sproporzionato. Il caso dello stato vegetativo è emblematico, perché idratazione e nutrizione assistite furono riclassificate da assistenza di base a “terapie” proprio a seguito della sentenza del 1990 che permise di anticipare la fine di Nancy Cruzan, una disabile in stato vegetativo prolungato che “non si decideva” a morire. La Nia è un trattamento non oneroso, gestibile a domicilio e che non reca al paziente sofferenze aggiuntive. Non ha dunque a che fare con l’accanimento terapeutico e sospenderla implica la decisione di affrettare intenzionalmente la morte di un paziente in condizioni stabilizzate che non stava morendo per la sua malattia.

Solo erroneamente la sospensione può essere invocata in base al criterio di proporzionalità ed è decisa invece per un giudizio negativo sulla condizione di vita che si ha di fronte, considerata indegna e non meritevole di essere lasciata proseguire. Sul tema il Magistero della Chiesa è intervenuto a seguito dei precisi quesiti della Conferenza dei Vescovi Usa. Secondo la Congregazione per la dottrina della fede, le cui risposte furono approvate da Benedetto XVI il 1 Agosto 2007, «la somministrazione di cibo e acqua, anche per vie artificiali, è in linea di principio un mezzo ordinario e proporzionato di conservazione della vita. Essa è quindi obbligatoria, nella misura in cui e fino a quando dimostra di raggiungere la sua finalità propria, che consiste nel procurare l’idratazione e il nutrimento del paziente». Inoltre, attualizzando quanto previsto nel Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 2279), la Congregazions ha escluso nettamente la possibilità che il nutrimento e l’idratazione forniti per vie artificiali a un paziente in “stato vegetativo permanente” possano essere interrotti quando esista la certezza morale che il paziente non recupererà mai la coscienza, perché questo «paziente è una persona (…) alla quale sono perciò dovute le cure ordinarie e proporzionate».

Magistero della Chiesa e deontologia medica sono concordi nel rifiuto dell’accanimento terapeutico, ma il tentativo di far passare per accanimento la Nia nel paziente in stato vegetativo rischia di mascherare la natura eutanasica della sua sospensione. Infatti, se l’eutanasia è un’azione o un’omissione che intenzionalmente provoca la morte allo scopo di porre fine al dolore (Catechismo n. 2277), la sospensione della Nia per accelerare la morte nei pazienti in stato vegetativo non può che essere considerata una forma di eutanasia omissiva. A meno che non si intenda limitare il concetto di eutanasia solo alla sua forma attiva, derubricando quella omissiva a desistenza terapeutica, come molta bioetica laica vorrebbe. Se si arrivasse a una tale conclusione, tuttavia, nessuno potrebbe togliere dalla mia mente di medico che porre fine rapidamente alla vita di un paziente in stato vegetativo con un’iniezione letale sia comunque preferibile a lasciarlo morire lentamente per denutrizione e disidratazione. Soprattutto, l’amore e il sacrificio delle migliaia di famiglie che assistono per anni malati così impegnativi verrebbero a essere infangati come accanimento terapeutico.
Gian Luigi Gigli
Neurologo, presidente del Movimento per la Vita italiano

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