La traversata da Malacca all’India fu assai infelice: per tre giorni e tre notti la nave fu sconvolta da una fortissima burrasca, di cui non avevo ancora visto l’eguale. Tra i passeggeri, molti, vedendosi la morte alla gola, facevano voto che, se Dio li avesse scampati da quel naufragio, non avrebbero mai più messo piede su una nave. I mercanti cercavano salvezza gettando a mare tutte le loro merci.
Io, in mezzo alla tempesta, mi raccomandavo a Dio, valendomi come intercessori dei santi della Chiesa militante, ed anzitutto dei membri della nostra Compagnia e dei suoi amici. Poi imploravo il soccorso delle preghiere di tutti i figli della Chiesa, Sposa di Gesù Cristo, i cui voti sono sempre ascoltati in cielo. Poi mi rivolsi ai santi del paradiso, specialmente al P. Pietro Fabro ed agli altri dei nostri, per poter avere a protettori sia i vivi sia i defunti, e coi loro meriti placare lo sdegno di Dio. Infine, per ottenere più in fretta il perdono delle mie colpe, mi raccomandavo a tutti i cori angelici, e ai vari ordini di santi e soprattutto alla SS. Madre di Dio, Regina del cielo, e, come tale, dispensatrice di ogni grazia.
Posi per ultimo ogni mia fiducia nei meriti di Gesù Cristo, nostro Signore e Salvatore, e munito così di tanti motivi di bene sperare, fu tanto eccessiva la consolazione che io provai in mezzo a quell’orribile tempesta, che fuori d’essa appena sarei capace di portarne tanta. Io, che conosco il gran numero dei miei peccati, confesso di sentirmi tanto confuso quando in mezzo ai più grossi disagi e ai più forti spaventi mi tocca perfino di piangere di consolazione e di allegrezza. E umilmente pregavo Gesù Cristo che, se gli fosse piaciuto salvarmi da quella tempesta, mi mettesse in serbo cose più grandi da patire per Lui.
Umile cuore
Dio mi fece spesso conoscere per lume interiore da quanti pericoli corporali e spirituali io sia stato liberato per le preghiere e i sacrifici dei miei confratelli, sia ancora vivi sulla terra, sia già beati in cielo. Padri e fratelli carissimi, vi ho scritto tanti dettagli sul mio conto affinché mi aiutiate a pagare, a voi e a Dio, quel debito che da solo non posso. Io non so frenarmi quando comincio a parlare o scrivere di questa nostra Compagnia. Solo le navi che già alzano le vele possono interrompere le mie parole.
Non trovo modo migliore per chiudere la presente che protestare: “Si unquam oblitus fuero tui, Societas Jesu, oblivioni detur dextera mea” (sia paralizzata la mia mano destra se io mi dimenticassi di te, o Compagnia di Gesù), tanti sono i titoli per cui mi sento debitore verso i miei confratelli. E questo stesso fatto di riconoscere i miei debiti verso la Compagnia, io lo reputo a beneficio singolare di Dio, ottenuto dalle vostre preghiere, perché quanto a me sono troppo povero di virtù per apprezzare tutta la grandezza e la moltitudine dei vostri meriti a mio riguardo.
Isole della speranza
Ed io tosto salpai verso le Molucche dove per tre mesi fui occupato a predicare, confessare, insegnare il catechismo ai fanciulli e ai neofiti, ai quali ultimi facevo ogni domenica e festa un’istruzione adatta per loro. Cosicché nei giorni festivi predicavo due volte: ai portoghesi durante la Messa e ai neofiti nel pomeriggio. Siano rese grazie a Dio per il gran frutto che io ne colsi. I neofiti tanto si innamorarono delle divine lodi, che i fanciulli molucchesi nelle piazze, le fanciulle e le donne nelle loro case, i contadini nei loro campi, i pescatori in mare, invece di canzoni sudicie e leggere, recitavano giorno e notte il Simbolo della fede, il Pater noster, l’Ave Maria, i Comandamenti, le Opere di Misericordia, il Confiteor e altre simili preghiere, tutto nel linguaggio indigeno, così che cristiani e pagani tutti capivano. Grazie a Dio, in breve tempo mi cattivai la benevolenza dei portoghesi emigrati quaggiù e degli abitanti, sia cristiani sia pagani, e tutti mi amavano.
Quindi mi trasferii nelle cosiddette isole del Moro, 60 leghe oltre le Molucche, dove esistono numerosi villaggi cristiani, abbandonati a se stessi, perché immensamente lontani dall’India, e quell’unico sacerdote che era rimasto tra loro, lo hanno ucciso. Laggiù battezzai moltissimi bambini e nei tre mesi che io passai con loro, ho percorso tutti quei villaggi e li ho conquistati a me e a Cristo. Queste isole sono pericolosissime, insanguinate da continue discordie interne. Gli isolani sono gente barbara, assolutamente analfabeta.
Abitualmente i nemici sono tolti di mezzo col veleno. Infelicissime le condizioni di vita: difettano gli oggetti di prima necessità, non vi cresce né frumento né vino, non sanno di che sapore sia la carne, perché non hanno armenti e greggi, tranne qualche porco, che essi allevano a scopo più di bellezza che di utilità. Scarseggiano d’acque dolci, abbondano i cinghiali, il riso e gli alberi, i cui frutti sostituiscono il pane e il vino, e la corteccia, conciata e tessuta, serve da vestito.
Vi ho detto tutto ciò, carissimi fratelli, per farvi capire quanto queste isole siano ricche di consolazioni celesti, racchiuse come tanti tesori nei molti pericoli e fatiche volontariamente cercate per il servizio di Cristo nostro Signore. Non c’è paese meglio di questo fatto apposta per perdere in pochi anni la vista degli occhi a causa delle molte lacrime, e quanto a me non ricordo d’aver provato altrove consolazioni di spirito così grandi e così continue, o d’essermi meno risentito per le fatiche e le sofferenze fisiche, benché dovessi viaggiare sempre a rischio di morire o di malattia o di assassinio. Ecco perché io vorrei chiamare queste isole non del Moro, ma “della Speranza”.
Quando dovetti lasciare le Molucche, per non contristare tanti amici ed i cari neofiti, volli mettermi in mare a mezzanotte. Ma il proposito fallì e non ci fu verso di potermi imbarcare segretamente. In un attimo corse dovunque la voce della mia partenza, ed io mi sentii tanto commosso al pensiero di abbandonare quei carissimi figli in Cristo, ed ebbi paura che la mia partenza avrebbe forse nociuto alla loro anima. Allora li esortai a raccogliersi ogni giorno in chiesa per imparare il Catechismo, e ai neofiti raccomandai di studiare a memoria la breve spiegazione del Simbolo da me composta, e li affidai alle cure di un pio sacerdote di mia fiducia.
San Francesco Saverio – Cocin, 21 gennaio 1548