Negli ultimi tempi, il dibattito sulla fine della vita in ambito pediatrico sembra impantanarsi quando si adotta il cosiddetto principio del “miglior interesse” del bambino come guida decisionale. Al contrario del “best interest principle,” sarebbe più opportuno seguire il “pain principle,” ovvero il principio del dolore. In un articolo su Medicina e Morale, (Sospensione delle cure in pediatria: il pain principle, una scelta rispettosa della vita e della sofferenza / Withdrawal of care in pediatrics: the pain principle, respectful of life and suffering | Medicina e Morale) il Prof. Bellieni espone i passaggi da seguire per applicare questo approccio.
La misurazione del dolore è essenziale per la gestione quotidiana, permettendo di valutare il benessere di un bambino e, nei casi gravi o di fine vita, di determinare se debbano essere perseguite cure invasive o fastidiose. È importante notare che possiamo valutare il dolore nei neonati, così come in qualsiasi altro individuo, utilizzando diversi strumenti. Innanzitutto, è possibile analizzare il sangue o la saliva per rilevare un aumento degli ormoni dello stress. Inoltre, si può valutare l’attività del sistema nervoso simpatico. Infine, un metodo più complesso ma praticabile consiste nella mappatura cerebrale attraverso l’elettroencefalogramma, che permette di individuare l’attivazione delle aree cerebrali coinvolte nello stress, sia negli adulti che nei bambini.
Il Professor Bellieni, neonatologo, ha introdotto un innovativo protocollo per i clinici: il “pain principle,” ovvero il principio del dolore, che sostituisce il troppo elastico “best interest principle.” Questo nuovo approccio è fondato sulla misurabilità del dolore e dello stress, a differenza del benessere che è più difficile da valutare. Il “pain principle” opera su tre livelli principali.
Innanzitutto, come accennato in precedenza, è essenziale misurare il dolore. Anche in situazioni in cui la comunicazione è limitata, come nel caso di chi non può parlare, è in stato di coma o vegetativo, è possibile valutare il livello di stress e determinare se il soggetto sta sperimentando un grado elevato di dolore e stress.
In secondo luogo, se ci troviamo di fronte a un dolore significativo, è necessario evitare di insistere con cure che possano aumentare ulteriormente il disagio. Pertanto, la prima azione consiste nel valutare se il dolore può essere ridotto attraverso l’uso di approcci farmacologici o non farmacologici disponibili. Nel caso in cui non sia possibile ridurlo in questo modo, la seconda azione prevede la riduzione dell’invasività e dell’aggressività delle procedure applicate al paziente. Al contrario, se non si riscontra dolore, non vi è alcuna ragione per diminuire l’invasività delle cure.
In terzo luogo, è essenziale comprendere che la riduzione dell’invasività non deve mai avere come obiettivo la fine della vita di qualcuno. Il “pain principle” si propone di misurare il dolore e di decidere se diminuire, mantenere o proseguire le cure in base al livello di dolore e stress riscontrato nel paziente. Ridurre l’invasività delle cure non implica la sospensione di elementi vitali come alimentazione, idratazione e assistenza respiratoria, poiché questi non rientrano nella categoria delle terapie e sono fondamentali per la sopravvivenza. Nel caso dell’assistenza respiratoria, se necessario, è possibile modificarne la modalità, passando da un approccio più invasivo e doloroso a uno meno doloroso.
Il cuore di questo principio è orientato al favore della vita, con l’intento di non lasciare la decisione sulla fine della vita alla soggettività, ovvero alle opinioni personali influenzate da criteri soggettivi, variabili da individuo a individuo. Il nostro obiettivo è sempre garantire il rispetto della vita e della dignità della persona attraverso strumenti oggettivi, chiari e ben definiti, riconosciuti dalla comunità scientifica.