I minori e la povertà: la condizione europea

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Il tema della povertà ha ripreso a manifestarsi con un’intensità sempre crescente negli ultimi anni non soltanto a seguito della crisi internazionale del 2007 (che ha coinvolto in misura diversa sia paesi sviluppati che non, creando perdita di occupazione, sotto- occupazione e riduzione della forza contrattuale di molti individui alla ricerca di un lavoro) ma anche per la sua natura strutturale associata alla presenza di diseguaglianze, organiche e crescenti con diversa intensità nei vari paesi.

Più che un problema di scarsità delle risorse economiche vi è soprattutto un problema di come esse sono distribuite tra ricchi e poveri – in particolare nel continente europeo – a cui è legata una certa ereditarietà sociale nella povertà che assume intensità maggiori nella gran parte dei paesi dell’Est e dell’Europa meridionale (tipo Cipro, Grecia, Italia, Portogallo, Irlanda e Spagna) mentre è nettamente minore nella parte continentale e settentrionale del nostro continente (es. Svezia, Danimarca, Germania, Finlandia e Olanda). Ben 118 milioni di persone (il 23,7% della popolazione della UE-28) sono  nel 2015 esposte al rischio povertà o esclusione sociale (cosiddette AROPE), anche se il loro numero si è assottigliato rispetto al 2014 (quando la loro incidenza ammontava al 24,4%). La strategia europea EU 2020, mirante a perseguire una crescita economica intelligente, sostenibile ed inclusiva, prevede di ridurre questo numero in maniera decisa entro il 2020 (meno altri 22 milioni di individui), portando la quota di soggetti a rischio di povertà ed esclusione sociale a 96 milioni.

Tra i poveri, tanti sono i minori che vivono in condizioni di indigenza, in contesti di privazione economica e materiale. Alla radice della loro povertà e dell’esclusione sociale il problema è la disuguaglianza. A livello europeo, il 10% delle famiglie più ricche attualmente guadagna il 31% del reddito totale e possiede più del 50% della ricchezza complessiva, e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando progressivamente in molti paesi.

Oggi dunque i livelli di povertà minorile in tutta Europa sono ancora molto alti.

Il Rapporto Save the Children 2017 evidenzia che oltre 26 milioni di bambini sono a rischio indigenza o esclusione sociale. Dal 2007, anno di inizio della crisi, la quota dei minori a rischio di povertà si è incrementata, seppur con andamenti altalenanti, fino al 2012 (in cui ha raggiunto il suo apice), ma a partire dal quale essa ha cominciato a scendere, senza interruzioni, fino al 2016.

I fattori che influenzano il rischio di povertà dei minori sono molteplici. La struttura della famiglia, ad esempio, dove i monogenitori con minori a carico (48,1%) e due adulti che hanno tre o più minori a carico (32,2%) rappresentano le tipologie familiari a maggiore rischio. Come pure l’intensità lavorativa della famiglia; i minori che vivono in famiglie a molto bassa e bassa intensità di lavoro sono a maggior rischio di povertà di coloro che vivono in famiglie a media ed alta intensità lavorativa.

Minori sono i titoli di studio (i livelli di istruzione quindi) o più bassa la posizione professionale del capofamiglia, maggiore è l’incidenza delle condizioni di povertà. I giovanissimi i cui genitori hanno un livello di istruzione basso hanno dunque più probabilità di crescere in povertà e di essere socialmente esclusi; sono il 52,3%, una percentuale che si riduce drasticamente all’8,2% in corrispondenza di genitori con un alto livello di educazione. Così come i figli di migranti. Coloro che vivono con almeno un genitore che è nato all’estero sono a più elevato rischio di povertà, dei minori che hanno genitori autoctoni (33,2% contro 18,4% nel 2015).

Il non poter disporre, da parte delle famiglie in cui vivono i minori, di un paniere   di beni indispensabili per il soddisfacimento dei loro bisogni contribuisce al rischio di povertà. Nel 2015 nella UE-28 la deprivazione materiale grave colpisce l’8,1% della popolazione ed in misura maggiore i minori (il 9,6% di essi versa in tale stato). Ma la quota dei minori “a rischio di povertà” in senso stretto è addirittura il 21,2%, più elevata quindi della quota di minori che patiscono una deprivazione materiale grave.

Anche vivere in famiglie in cui i genitori hanno un impiego pagato non pone i bambini al riparo dal rischio di diventare poveri; il 9,5% degli adulti tra i 18 ed i 64 anni in pericolo di indigenza in Europa aveva comunque un lavoro.

Dalla povertà, intesa quale deprivazione materiale, il passo ad una povertà anche educativa, intesa quale mancanza delle opportunità di imparare, sperimentare, formarsi e sviluppare competenze cognitive, è quindi molto breve. La presenza di diseguaglianze socio-economiche (anche in paesi ricchi) pregiudica fortemente la capacità dei minori di avere una vita culturale molto attiva già nelle prime fasi della loro esistenza. E laddove la deprivazione materiale è più forte, le occasioni di sviluppo cognitivo dei minori – attraverso le quali essi possono esprimere il proprio potenziale – sono quasi nulle.

La condizione di indigenza aumenta il rischio di essere manchevoli dal punto di vista educativo; viceversa attraverso questa condizione si perpetua nelle generazioni future anche la povertà materiale.

Entrambe, strettamente legate, alimentano dunque il ripetersi dello svantaggio, pregiudicando l’intero sviluppo futuro di un paese in termini di capitale umano.

Una condizione sfavorevole di partenza può quindi avere effetti di lungo periodo perché i bambini che nascono in condizioni avverse ed ai quali vengono negate le opportunità di apprendere, di condurre una vita autonoma ed attiva, di sviluppare e far fiorire capacità, talenti ed aspirazioni, per costruirsi il loro futuro posto nella società, rischiano di diventare gli esclusi di domani.

I bambini che provengono da famiglie più svantaggiate sono più esposti a conseguire risultati peggiori a scuola; hanno anche meno opportunità di prendere parte ad attività culturali, sportive e sociali che contribuiscono alla loro qualità di vita, alle relazioni sociali e in generale al loro livello di soddisfazione nella vita. Crescendo incontrano maggiori ostacoli nel diventare componenti attivi della società, nel trovare lavori di buona qualità e stabili e nel realizzare dunque il proprio potenziale.

I backgrounds familiari e sociali hanno una importanza fondamentale sulla scelte legate al futuro lavorativo di un individuo e sul suo successo professionale. Tutti quegli elementi emozionali e legati alla costruzione del carattere acquisiti prima di entrare nel mercato del lavoro, spesso attraverso la scuola e la famiglia, ma anche attraverso le relazioni, le risorse e le strutture del quartiere dove l’individuo riceve la sua formazione, inevitabilmente segnano il suo percorso lavorativo successivo.

La povertà dei bambini tende a generare bassa istruzione e questa conduce a disoccupazione e bassi salari; lo stato di disoccupazione determina inevitabilmente un’atrofia delle conoscenze e un deterioramento di quelli che sono i general skills,      di conseguenza i lavoratori avranno problemi a trovare altre occupazioni in tutti quei casi nei quali passano per una fase di disoccupazione. In ogni caso è giusto parlare di uno scarring effect (effetto cicatrice) prodotto dalla povertà minorile prima ancora che dall’abbandono scolastico, o dalla disoccupazione stessa.

Oggi un adolescente di 15 anni su cinque (il 20%) in Europa vive in condizioni di povertà educativa.

L’obiettivo della UE è di portare entro il 2020 la quota dei “low performer” nel campo delle scienze, della lettura, della matematica al di sotto del 15%, adottando un approccio multidisciplinare all’apprendimento per il mutuo rafforzamento delle competenze da acquisire in queste tre aree del sapere di base. Per migliorare il rendimento scolastico degli studenti diventa strategico in tal senso motivare maggiormente i docenti; utilizzare nuovi metodi di insegnamento, interdisciplinari e collaborativi; identificare all’interno della popolazione studentesca coloro i quali hanno più bisogno di un supporto sia educativo che materiale; ma soprattutto agire al fine di limitare l’abbandono scolastico. Unicef nel 2014, attraverso un confronto tra 28 paesi europei, su diverse sfaccettature della povertà (istruzione, abbigliamento, risorse educative, attività di svago, attività sociali, accesso all’informazione e qualità dell’abitazione) ha potuto individuare i bambini che soffrono almeno di 2 di queste privazioni e che quindi soffrono di povertà infantile multidimensionale. Da questo confronto emergono ampie differenze tra i paesi: si va dall’11% in Svizzera all’85% in Romania. Nei paesi nordici, in Svizzera e nei Paesi Bassi meno di un bambino su cinque può essere considerato povero mentre nei paesi dell’Europa centrale come Bulgaria, Ungheria, Romania e Slovacchia, come pure in Italia, almeno un bambino su due è considerato povero in due o più dimensioni.

Negli ultimi anni la UE ha introdotto alcune iniziative per affrontare la povertà     dei bambini. La Comunicazione del 2011 “Educazione e cura della prima infanzia: consentire a tutti i bambini di affacciarsi al mondo di domani nelle condizioni migliori” dichiara l’importanza dell’educazione e cura della prima infanzia, ritenute fondamentali per l’apprendimento permanente, l’integrazione sociale, lo sviluppo personale e l’occupabilità, nonché per la realizzazione di due obiettivi fondamentali della Strategia Europa 2020 (tasso di abbandono scolare al di sotto del 10 %, liberare dalla povertà 20 milioni di persone). La Raccomandazione del 2013 “Investire nell’infanzia per spezzare il circolo vizioso dello svantaggio sociale” ha incentrato gli sforzi per combattere la povertà e l’esclusione sociale sui diritti dei bambini, sul loro superiore interesse, sulle pari opportunità e sul supporto per i piccoli più svantaggiati. È del 2015 l’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile, che include una serie di obiettivi tra cui: eliminare la povertà estrema e ridurre almeno della metà la quota di bambini che vivono in situazioni di indigenza, in tutte le sue forme, fornire un’educazione di qualità, inclusiva ed equa; con la finalità trasversale di ridurre la disuguaglianza sia all’interno delle nazioni che tra i diversi paesi. La recente Comunicazione del 2017 “Istituzione di un pilastro europeo dei diritti sociali” stabilisce il diritto dei minori alla protezione dalla povertà e dal rischio di esclusione e il diritto di ogni bambino a un’educazione e cura di buona qualità dalla nascita fino all’obbligo scolastico.

Nonostante l’impegno nella sensibilizzazione sul tema, il raggiungimento degli obiettivi espressi sembra essere ancora lontano. A tale proposito, il nuovo rapporto dell’European Social Policy Network (ESPN), riguardante gli interventi che i Paesi membri dell’Unione Europea hanno realizzato, evidenzia alcune strade necessarie per rafforzare il sistema di protezione sociale dei minori. In primis consolidare i diritti fondamentali del bambino all’interno  delle  diverse  legislazioni  nazionali;  riuscire  ad individuare preventivamente i casi ad alto rischio di esclusione sociale e povertà; aumentare l’accessibilità e la qualità dei servizi di insegnamento e cura per la prima infanzia (i cosiddetti ECEC, Early Childhood Education and Care); infine, affrontare e superare le disparità e le complessità riguardanti l’accesso alla scuola.

Proprio perché il pericolo di indigenza è dietro l’angolo, l’impegno della comunità internazionale contro la povertà materiale e quella educativa si unisce anche a quello contro la disoccupazione giovanile. Dall’ultima indagine ESDE (indagine annuale sull’occupazione e sugli sviluppi sociali in Europa) della Commissione Europea emerge che, malgrado i costanti miglioramenti del tenore di vita nell’UE, i giovani non beneficiano di questa positiva evoluzione tanto quanto le generazioni precedenti. A ciò va aggiunto che la quota di reddito da lavoro delle fasce più giovani della popolazione si è ridotta nel tempo. Queste problematiche influiscono sulle decisioni dei giovani relative al nucleo familiare, come l’avere figli o acquistare una casa; ciò può a sua volta ripercuotersi negativamente sui tassi di fecondità e di conseguenza sulla sostenibilità dei sistemi pensionistici e sulla crescita. L’impegno della Commissione, teso a ridurre la disoccupazione in generale e la disoccupazione giovanile in particolare, ha portato ad una diminuzione del numero dei giovani disoccupati di 1,8 milioni di unità rispetto al 2013 e quello dei giovani che non studiano, non frequentano corsi di formazione e non lavorano (i cosiddetti NEET) di 1 milione di unità.

da La povertà minorile ed educativa  Dinamiche territoriali, politiche di contrasto, esperienze sul campo

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