Ragazzo di stalla alla cascina Moglia
Quando mamma Margherita ventilò la proposta di far continuare gli studi a Giovannino che aveva già 12 anni, esplose l’ostilità del fratello Antonio.
– Lui vuole diventare prete? Ma i soldi chi li dà? Giovannino si mise a studiare da solo la grammatica. Antonio non lo può soffrire, gli strappa il libro di mano. – Adesso basta. Voglio farla finita con questa grammatica. Io sono venuto su grande e grosso senza masticare sui libri.
– Anche il nostro asino non mastica libri ed è più grande di te – risponde risentito Giovannino. Antonio si avventò sul fratello. Giovannino fu pestato, nonostante le lacrime di mamma Margherita, la quale meditò a lungo quella notte sulla situazione domestica. Così non poteva continuare. Da donna energica, prese una decisione dolorosa.
Il mattino dopo disse tristemente a Giovannino: – È meglio che tu vada via di casa. Tuo fratello non ti può soffrire. Vai a mio nome nelle cascine qui intorno, se qualcuno ti può prendere come « servente » per un anno. Poi si vedrà!
Giovannino con il suo fagottello sulla spalla uscì di casa e si accasò presso i fratelli Moglia di Castelnuovo. Faceva il ragazzo di stalla.
Un giorno il giovane padrone Luigi Moglia condusse seco il piccolo garzone perché l’aiutasse a piantar le nuove viti. Giovanni legava con vimini, vicino a terra, le nuove viti ai rispettivi pali. A un certo punto, stanco del faticoso ed incomodo lavoro, esclamò:
– Oh, che male di schiena!
– Avanti, avanti, – rispose il padrone. – Se non vuoi aver male di schiena quando sarai vecchio, bisogna che ti avvezzi adesso che sei giovane.
Giovanni continuò il lavoro e poco dopo, guardandolo con aria sorridente, soggiunse: – Ebbene, queste viti che ora lego, faranno l’uva più bella, daranno il vino migliore e dureranno più delle altre.
– Va’ là, boc! (che vuol dire minchione) – rispose il Moglia. – Fosse vero!
E fu proprio vero. Quel filare produsse ogni anno il doppio degli altri, che con l’andar del tempo perirono e più volte furono rinnovati, mentre le viti del « filare di don Bosco » prosperarono con ammirazione di tutti dal 1828 al 1890, cioè per oltre 60 anni.
Quando, dopo tanti anni, i nipoti dei Moglia si recavano all’Oratorio in Torino, portavano al santo di quell’uva, ricordando il prodigio continuo.
Un altro giorno il vecchio Giuseppe, zio di Luigi Moglia, padrone della fattoria, arriva dalla campagna tutto sudato e con la zappa in spalla. È mezzodì e sulla torre di Moncucco scocca il suono delle ore. Il vecchio si siede a tirare il fiato e vede Giovannino in ginocchio sul fieno che recita l’Angelus, come mamma Margherita gli ha insegnato.
– Ma bravo! Noi padroni ci logoriamo la vita sulla zappa – gli dice in tono semiserio – e il garzone se la prende calma e se ne sta a pregare in pace.
– Quando c’è da lavorare, barba Giuseppe, sapete che non mi tiro indietro – ribatte pronto Giovannino -; ma mia madre mi ha insegnato che, quando si prega, da due grani nascono quattro spighe. Se invece non si prega, da quattro chicchi nascono due spighe sole. Sarà meglio che preghiate un po’ anche voi.
– Salute! – conclude il vecchio -. Adesso abbiamo anche il prete in casa.
Nella bella stagione il garzone porta le mucche al pascolo e mentre gli animali brucano l’erba intorno, Giovannino, all’ombra di un albero, perde la testa sui suoi libri.
– Perché leggi tanto? – gli chiede Luigi Moglia. – Voglio diventare prete. – E dove li prendi i soldi che ci vogliono, oggi, per studiare?
– Se Dio vuole, qualcuno ci penserà.
C’è in casa una bambinetta, Anna, che vedendo Giovannino intento a leggere, invece di badare ai suoi giochi, si indispettisce: – Piantala di leggere, Giovanni.
– Ma io diventerò prete e dovrò predicare e confessare.
– Sì, prete! – lo canzona la bimba; – un vaccaro tu diventerai!
– No. Tu adesso mi prendi in giro, ma un giorno verrai a confessarti da me. – E così fu.
La predica ben pagata
Nel novembre del 1829 ci fu una « missione » predicata a Buttigliera d’Asti e v’accorreva anche la gente dei paesi d’intorno. Giovanni Bosco vi andò assiduamente, tutto felice di poter ripetere la sera la predica a mamma Margherita.
Una sera, tornando a casa, si trovò a camminare vicino a un vecchio prete reduce anche lui dalla missione. – Ragazzo, – gli dice il vecchio prete, con aria bonaria – ti do quattro soldi se mi sai dire quattro parole della predica di oggi.
Giovanni attacca e recita l’intera predica, come se leggesse un libro.
– Ohi, là, là! Bene! Che scuola hai fatto?
– Ho imparato a leggere e a scrivere. Mi piacerebbe studiare ancora ma mio fratello più grande non ne vuole sapere.
– E perché vorresti studiare? – Per farmi prete.
– Ebbene, vieni a stare con me.
Il prete è don Giovanni Melchiorre Calosso, settant’anni, in pensione, che fa il cappellano a Morialdo. Margherita fu lieta di sistemare Gíovannino presso il vecchio prete che gli avrebbe fatto scuola. Giovannino è alle stelle. Trovava di colpo quel che gli mancava: confidenza paterna, senso di sicurezza, fiducia. Passò così un anno in un batter d’occhio.
Orfano un’altra volta
Racconta Giovanni: « Nessuno può immaginare la mia contentezza. Amavo don Calosso come un padre. Quell’uomo di Dio mi portava tanto affetto che mi disse più volte: – Non darti pena per l’avvenire, Giovannino. Finché vivrò non ti lascerò mancare niente. E se muoio provvederò a te ugualmente ».
Un disastro fece crollare tutte le speranze.
Un mattino di novembre 1830 Giovanni era a casa da mamma Margherita per farsi cambiare la biancheria, quando arriva una brutta notizia: don Calosso è stato colto da infarto. Il ragazzo vola a Morialdo e trova don Calosso morente che, non potendo più parlare, gli indica la chiave di un cassetto, facendo segno di non consegnarla a nessuno. Per lui la morte del buon prete fu uno schianto.
Vennero i nipoti di don Calosso, per i funerali. Giovanni, scrupoloso e sincero come sempre, consegnò loro la chiave. Erano gente onesta che capiva la situazione e gli dissero:
– Pare che lo zio volesse lasciare a te questo denaro… (Nel cassetto c’erano seimila lire). Tu prendi pure quello che vuoi!
– Non voglio niente! – si sentì gridare Giovanni, con il pianto in gola.
Non era il denaro che gli premeva. Era affranto per la sua situazione. A 15 anni si ritrovava solo, senza maestro, senza padre, senza mezzi, senza una prospettiva per il futuro. « Piangevo inconsolabile » scrive.
Se riesco a farmi prete
Dio è grande. Con l’aiuto di barba (zio) Michele, Giovanni si iscrive all’unica scuola di grammatica (oggi diremmo scuola media) che è aperta a Castelnuovo, il capoluogo di comune.
Qui vede spesso molti preti e li osserva se, per caso, ne trova qualcuno che somigli a don Calosso. Ma sono diversi. Egli li saluta con deferenza e si aspetta un sorriso, una buona parola. Niente.
A quei tempi si credeva che la gravità sostenuta fosse il vero contegno delle persone di chiesa; e quindi restituivano appena il saluto passando, senza curarsi di lui, che spesse volte se ne lamentava con la madre: – Che cosa costerebbe loro una buona parola, un buon suggerimento? Oh quanto bene farebbe alla mia anima!… Gesù non faceva così! Io, vedete, se riuscirò a farmi prete, voglio consacrare tutta la mia vita ai ragazzi. Non mi vedranno mai troppo serio; sarò sempre il primo a parlare e a tenerli allegri.
« Li farò giocare, li farò cantare, E con l’allegria tutti li vorrò salvare! ».
E pareva che già pregustasse la sua futura nobilissima missione.
A scuola, ma con i buoni
Nell’ambiente scolastico ci si ritrova tutti: buoni e cattivi. I ragazzi impegnati di solito sono disciplinati e silenziosi. Gli scapestrati sono spavaldi e fanno chiasso. Giovanni fu adescato da questi: – Vieni con noi, facciamo sega (mariniamo la scuola), andiamo in giro a dar fastidio alle ragazze…
– Lasciatemi perdere. Non ho denari da spendere. – Come! non hai denari?!… Ah, mio caro, è tempo di svegliarsi! bisogna imparare a vivere al mondo! Suvvia, cercati i soldi, prendine dove ce n’è, e godrai anche tu come noi.
A tali suggerimenti, Giovanni rispondeva: – Come!… Voi dunque vorreste che io imparassi a rubare?! Ma non sapete che chi ruba fa peccato, e che i ladri e i giocatori fanno trista fine?! Se voi fate questo mestiere andrete a finir male. Via da me, ché non sarò mai vostro amico!
Tanto bastò perché da quel giorno i pochi cattivi lo lasciassero tranquillo, mentre i buoni si assiepavano attorno a lui.
Uno scolaro assai dotato
Giovanni aveva passione per lo studio, buona capacità di apprendere, memoria prodigiosa. Ma il suo maestro s’era ficcato in testa che Bosco, essendo della frazione dei Becchi e figlio di contadini, non poteva che essere scarso di mente. La sua stessa età (16 anni ormai) lo dimostrava.
Un giorno c’era compito in classe. Bosco, che era in prima grammatica, chiese al maestro che gli lasciasse svolgere il compito assegnato a quelli di terza grammatica.
L’insegnate si offese: – Come?! E come pretendi, tu che sei dei Becchi… Piuttosto, dimmi un po’, ti pare che questo sia pane per i tuoi denti?
Bosco educatamente insistette di poter fare l’uno e l’altro compito.
– Fa’ pure come ti piace! Ma non penserai che io legga le bestialità che metterai in carta!
Il compito di terza era un passo di un autore classico assai scabroso. Bosco si raccolse, lavorò di lena e in breve tempo consegnò la sua traduzione.
L’insegnante prese il foglio e lo gettò sul tavolo, senza guardarlo.
– La prego, professore, legga e mi dica gli errori che ho fatto.
– Legga, legga, professore! Anche noi vogliamo sentire i suoi spropositi! – fece coro la classe. L’insegnante lesse: era una traduzione insolitamente fluida e corretta. Ma egli, deponendo il foglio, disse, in tono di scherno: – Io lo pensavo. Bosco ha copiato tutto da capo a fondo.
– E da chi avrei copiato, professore? – obiettò serenamente Giovanni, indicando i compagni intenti ai loro elaborati ancora incompiuti.
L’albero della cuccagna è una provvidenza
Nelle vacanze, a Montafia, paese vicino a Castelnuovo, c’era la sagra con le consuete attrazioni e giochi, tra i quali l’albero della cuccagna, un abete ben liscio e insaponato, in cima al quale svettava una bella corona di premi, tra i quali una borsa con venti belle lire.
– Mi farebbero comodo – pensò Giovanni.
Una folla stragrande assisteva allo spettacolo. I giovani del paese, l’uno dopo l’altro, si avvicinavano e tentavano la scalata.
Uno giungeva a un terzo, l’altro a metà; ma poi, non potendone più, scivolavano a terra.
Le grida della gente, che ora incoraggiava ora fischiava, andavano alle stelle.
Giovanni che, intanto, osservava attentamente, notò che tutti i contendenti davano la scalata con rapidità, e la continuavano senza prendere fiato per cui, arrivati a un certo punto, si sentivano venir meno e trascinare a terra dal proprio peso.
Venuto il suo turno, si presentò risoluto in mezzo allo spazio, e prese ad arrampicarsi con calma, incrociando di quando in quando le gambe per annodarle all’albero e sedersi sulle calcagna a riposare.
Gli spettatori che non intendevano il perché di quella manovra si aspettavano di vedere anche lui, da un momento all’altro, ripiombare a terra.
Ma Giovanni saliva, saliva; e allorché fu vicino alla cima che dondolava perché molto sottile, si fece un silenzio generale, che poi scoppiò in frenetico applauso quando, aggrappatosi al cerchio, egli prese ad intascare gli oggetti di premio.
Giunto a terra, sgattaiolò fra la gente e corse giubilante a casa.
Saggio di capacità
Dalla scuola di Castelnuovo, passò al Ginnasio di Chieri. Qui gli toccò un professore molto severo, il quale, al vedersi dinanzi un allievo alto e grosso come lui, scherzando disse in piena scuola: – Costui o è una grossa talpa, o un gran talento. La scolaresca rise, e Bosco, sorridendo anche lui, rispose: – Qualche cosa di mezzo!… Ho però buona volontà.
Erano passati appena due mesi, e un giorno Bosco aveva dimenticato a casa il libro di testo. Il professore, dopo avere spiegato e fatto i commenti, accortosi che Bosco non teneva il libro dinanzi, lo chiamò a leggere il testo latino che aveva spiegato.
Bosco non si scompose. Preso in mano un libro qualunque, ripeté a memoria il testo, la costruzione, e tutti i commenti fatti dal professore.
Appena finito, i compagni diedero in un battimani generale. Il professore, andando sulle furie, volle sapere il perché di quel disordine. Allora, presero a dire: – Bosco ha in mano un altro libro, e legge e spiega come se avesse il testo.
Il professore volle accertarsi. Prese in mano il libro che Bosco teneva, lo fece ancora proseguire per alcuni periodi, e passando dallo sdegno all’ammirazione, gli disse: – Siete un prodigio di memoria; procurate di servirvene in bene!
Prodigio di memoria
Nel leggere tutte queste cose di S. Giovanni Bosco studente, qualcuno potrà pensare che trascurasse lo studio. Tutt’altro. Essendo stato abituato fin da bambino a dormire assai poco, impiegava due terzi della notte sui libri, e talvolta accadeva che l’ora della levata lo trovava ancora coi libri in mano.
Messosi d’accordo con un libraio, si era associato alla lettura dei classici latini ed italiani, e li leggeva non per solo divertimento, ma per penetrarne il giusto senso e la bellezza. Li studiava, e riteneva non solo i punti più salienti, ma spesso l’intero testo.
Non faceva distinzione fra leggere e studiare e con facilità poteva ripetere il contenuto di qualsiasi libro di italiano, latino o greco, letto o udito leggere.
Un giorno, un compagno col quale si preparava ad un esame, gli disse: – Bosco, vuoi che scommettiamo chi impara per primo questa pagina?
– Proviamo pure.
Lettala appena, il compagno la recitò alla lettera. – E adesso a te – soggiunse.
Bosco la ripeté tale quale, e poi continuò: – E ora sapresti dirla dalla fine al principio? – Che stranezza! – esclamò il compagno.
– Ebbene, io te la dico. – E prese a recitarla dall’ultima parola alla prima.
Altre doti sorprendenti e… più che naturali
Nella vita di don Bosco i « sogni » costituiscono un capitolo a sé da studiare attentamente. Per ora tradiscono una capacità prodigiosa di « preveggenza » che riesce molto utile al nostro Amico.
Eccone un saggio.
Una notte, sognò che il professore aveva dettato il compito in classe, e che egli stava eseguendolo. Svegliatosi, balzò di letto e scrisse quel compito che era un testo latino; poi prese a tradurlo con tutta comodità.
Al mattino il professore detta davvero il compito, e precisamente quello sognato da Giovanni. Questi, senza aiuto di vocabolario, e in brevissimo tempo, consegnò il foglio con meraviglia di tutti. Ma la meraviglia crebbe d’assai quando, interrogato dal professore, confessò ingenuamente di aver sognato quel compito nella notte. Altra volta capitò la stessa cosa.
Bosco aveva consegnato in pochi minuti il compito, eseguito a perfezione. Il professore, grandemente ammirato, comandò che gli portasse la brutta copia. Giovanni obbedì.
Il professore aveva preparato quel compito la sera precedente, ma vedendo che era troppo lungo ne aveva dettato solo la metà. Ora, con suo grande stupore, lo trovava tutto intero nel quaderno del ragazzo.
Quale arcano si nascondeva là sotto?! Che Bosco fosse penetrato di notte nella camera del professore a copiarlo, era impossibile. Dunque?!
Bosco candidamente confessò: « Ho sognato ». Cioè, aveva sognato il dettato e la traduzione, e li aveva scritti interi sul quaderno, mentre sul foglio da consegnare si era limitato a scriverne quanto aveva dettato il professore.
Muscoli di ferro
A proposito della vigoria fisica di don Bosco l’autore di queste pagine può attestare quanto segue. Nel dicembre 1884, recatosi don Bosco a S. Benigno per la seconda vestizione clericale dei suoi novizi, passò con loro tutta la giornata, raccontando amenità della sua gioventù. Ad un certo punto, uno dei chierichetti che il santo teneva per mano, si fece a dirgli: – Don Bosco, lei, quand’era giovane, vinceva nelle corse i saltimbanchi, ed ora può appena trascinarsi! Peccato che le gambe non servano più!
– Veramente, le gambe non mi vogliono più servire, ma le mani mi servono ancora, – rispose sempre sorridente il santo. E prese a stringere così fortemente le mani di quanti le avevano fra le sue, che tutti, con grandi stenti, poterono liberarsi, meno il poveretto di cui sopra che fu costretto a chiedere pietà.
Tergendosi allora i sudori, e stropicciandosi le dita livide, esclamò: – Davvero che le servono le mani! Ha dei muscoli di ferro… Io ho provato!