Vero Padre mio! Ricevetti una lettera di vostra Santa Carità in Malacca, quando ritornavo dal Giappone, e alle notizie ch’io vi lessi della salute e della vita vostra che tanto amo, Iddio sa quanto fu consolata la mia anima. E fra le molte parole e gioie sante della sua lettera, lessi le ultime che dicevano: “Tutto vostro senza potervi dimenticare un solo istante, Ignazio”, le quali piangendo io lessi, come ora piangendo le scrivo, ricordando il tempo passato e il grande amore che sempre ebbe ed ha per me e pensando ancora che dai molti strapazzi e pericoli del Giappone Iddio mi liberò per le sante preghiere di Vostra Carità.
Mai più io potrei narrare tutto quello ch’io devo ai Giapponesi: per essi mi ha donato il Signore molta luce sulle infinite mie miserie; perché prima, essendo come estraneo a me stesso, non conoscevo molti dei mali che c’erano nel mio intimo, fino a quando non mi vidi fra i pericoli e fra le fatiche del Giappone. Chiaramente sentii allora che avevo estrema necessità di qualcuno che fosse tanto trepido e sollecito di me. Guardi ora Vostra santa Carità al peso ch’Ella m’ha dato di tante anime della Compagnia (*), sapendo troppo bene che in me non c’è che pura misericordia e una grande inettitudine. Io speravo che Ella avrebbe affidato me a quelli della Compagnia, e non essi a me.
Vostra santa Carità mi scrive che tanto desidera vedermi prima di finire questa vita. Dio, nostro Signore, sa quanta commozione produssero queste parole nella mia anima, e quante lacrime esse mi costano ogni volta ch’io vi penso! E sembrandomi cosa possibile, io mi consolo: per la santa ubbidienza nulla è impossibile.
Giappone: aspra terra
I Religiosi destinati al Giappone saranno perseguitati più di quanto molti si attendono, saranno assillati da visite e da domande a tutte le ore del giorno fino a tarda notte, saranno invitati nelle case di gente nobile, a cui non ci si può rifiutare. Non avranno tempo sufficiente per pregare e meditare e raccogliersi in se stessi, né mai potranno celebrare, almeno sugli inizi; continuamente occupati a sciogliere le loro questioni; mancherà il tempo per l’ufficio e financo per mangiare e per dormire. Sono molto importuni laggiù, con gli stranieri soprattutto, ch’essi disistimano e di cui sempre si burlano.
Peggio sarà quando dovremo opporci a tutte le sette e ai loro vizi manifesti, quando diremo loro che non c’è rimedio per chi va all’inferno. Molti s’adireranno al sentire che la pena dell’inferno è irreparabile, ed altri ci diranno che di nulla siamo capaci, se non riusciamo neppure a trarre le anime dall’inferno: essi non sanno nulla del purgatorio.
Per rispondere alle loro domande occorre essere letterati e più ancora buoni filosofi: bisogna mettere in aperta contraddizione i loro sofismi. Codesti bonzi si vergognano moltissimo di essere colti in contraddizione o di non saper rispondere.
Essi dovranno inoltre reggere ai grandi freddi, perché Bando, ch’è la prima Università del Giappone, si trova assai a Nord, come pure le altre, e coloro che vivono in terre fredde sono più acuti e intelligenti.
Peggio: laggiù non si mangia che riso. C’è anche, è vero, del grano, ed erbe di varia specie: tutte cose ben poco nutrienti. Fanno vino col riso, ed è l’unico vino; è scarso e costa molto.
E la prova fra tutte più dura sono gli evidenti e continui pericoli di morte.
Non è certo una terra, questa, fatta per uomini anziani, o troppo giovani e di scarsa esperienza: costoro non servono agli altri e perdono se stessi. La gente di laggiù è molto fine nel saper cogliere ogni sorta di peccati, e si scandalizzano d’ogni più piccola cosa ch’essi avvertano in coloro che vorrebbero ammaestrarli.
Molto consolato io sarei se Vostra santa Carità obbligasse a passare per Roma tutti quelli che da Coimbra devono essere mandati in Giappone.
Io penserei che i Fiamminghi e i Tedeschi, purché sappiano spagnolo e portoghese, sono ottimi per il Giappone, capaci di molte fatiche e temprati ai grandi freddi: molti di costoro sparsi nei collegi d’Italia e di Spagna, inetti a quei dolci linguaggi, non vi possono predicare, mentre assai frutterebbero nel Giappone.
San Francesco Saverio – Cocin, 29 gennaio 1552