Educare al mondo degli affetti

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Image by Goran Horvat from Pixabay

Se è vero che siamo immersi nella cultura del narcisismo, allora è facile, forse inevitabile, concludere all’impossibilità di educare al mondo degli affetti: ormai conta solo quello che si “sente dentro”, nel senso che tutto è diventato una questione di gusti e sui gusti – come è noto – non si discute, proprio perché sono una faccenda privata. Ecco perché si preferisce parlare di emozioni: queste, al contrario degli affetti, si presentano come poco impegnative, non foss’altro perché vanno e vengono improvvisamente, spesso senza lasciare traccia. Si capisce allora come mai nessuno si sognerebbe di mettere in discussione le emozioni di un altro. Del resto, chi si autorizza a dire qualcosa a qualcuno che pare regredito allo stadio infantile primario descritto da Freud, avendo ormai come ideale esclusivo se stesso? Certo, se si trattasse veramente di un bambino, l’unico autorizzato a prender parola sarebbe un padre. Ed è facile intuire quanto sia importante che la fase iniziale della cosiddetta “onnipotenza” narcisistica venga superata, anche se questo momento di passaggio comporta una ferita, la dolorosa rinuncia all’illusione dell’autosufficienza. Eppure è solo per la via paterna che l’impalcatura narcisistica si smonta, consentendo al soggetto di trovare la via dei legami: un padre (che fa il padre) non incarna solo la legge, cioè un provvidenziale limite al «monoteismo libidico del sé»; un padre fa il padre anche perché ama la madre di suo figlio, offrendo così al figlio un esempio di desiderio, cioè – per l’appunto – di legame con l’altro. Naturalmente entrambe le funzioni sono essenziali: la legge senza il desiderio diventa incomprensibile e violenta; il desiderio senza la legge diventa – nel migliore dei casi – un esempio di narcisismo. Ora, il punto di crisi reale è che oggi mancano gli attori principali di questa scena educativa: a cominciare dai padri, che sembrano del tutto “evaporati”, per finire ai figli, che in realtà non sono bambini, ma soggetti infantilizzati. Inutile dire che le condizioni socio-culturali attuali sono del tutto solidali con la trasformazione narcisistica degli affetti in emozioni. Tre ambiti, in particolare, sembrano favorire questa deriva: il mercato, il potere, la tecnica. È noto che una certa logica di mercato offre godimento illimitato per tutti: ogni bisogno – così si sostiene – trova di che appagarsi. La promessa è convincente proprio perché rievoca il sogno di onnipotenza infantile: tutto e subito, senza dover chiedere niente a nessuno. La soddisfazione arriva in modo automatico, una volta acquistato l’“oggetto giusto”; gli altri non c’entrano, se non – al limite – come ulteriori oggetti di consumo. Applicata al mondo degli affetti, questa logica utilitaristica equivale a dire: si sta con qualcuno se e finché produce un tornaconto emotivo. Così, se tutto può essere comprato, in nome di cosa dubitare di questa allettante scorciatoia per la felicità? Non certo in nome di un padre, al posto del quale – infatti – agisce un’autorità dispotica ma subdola, tanto più manipolatrice quanto più fintamente benevola: nella società opulenta – spiega, tra gli altri, Marcuse – chi gestisce il potere non ha quasi più bisogno di giustificare il dominio che esercita. È sufficiente garantire il continuo flusso di oggetti e nessuno si accorgerà dell’inganno: l’unico pensiero sarà divertirsi. In fondo, questo potere assomiglia all’autorità paterna, se non fosse che il suo scopo non è affatto educativo: invece di preparare gli uomini alla vita adulta, cerca – come disse già Tocqueville – «di fissarli irrevocabilmente all’infanzia». A completare il quadro, la pervasività della tecnica: viviamo nella convinzione che tutto ormai si può sperimentare, perché crediamo che esista un know-how specifico per ogni attività umana. Insomma, è sufficiente apprendere opportune “tecnologie del sé” – come le chiamerebbe Foucault – e nessuna snervante educazione sentimentale sarà più necessaria: l’enigma degli affetti, già ampiamente sostituiti dai prodotti di consumo emotivo, non sta nel legame con l’altro bensì nelle istruzioni per l’uso. Se poi qualcosa dovesse andare storto, è ancora alla tecnica che si chiederebbe soccorso. Non certo a qualcuno. Ora, un primo spunto critico che consente di mettere in discussione questo scenario è il seguente: la regressione generalizzata al sogno di onnipotenza infantile non garantisce affatto la felicità che promette; al contrario, porta ad un’ altrettanto generalizzata malinconia. Come mai? Il problema è che se il mondo degli affetti viene interpretato e vissuto come diritto assoluto al godimento, allora ognuno può diventare il gadget di chiunque. E si capisce che venire usati e gettati non fa piacere a nessuno. Quando ciò accade, la magica corrispondenza bisogno-oggetto si rivela illusoria: l’“oggetto giusto”, quello che dà automaticamente la felicità, non esiste. La malinconia è la denuncia di questo inganno. Ma la sua matrice, come Freud insegna, rimane narcisistica: deluso, il malinconico si ritira in se stesso, celebrando il lutto infinito del proprio ideale di onnipotenza. Il che significa che il malinconico non rinuncia affatto a questo ideale: la tristezza dell’impotenza è solo l’altra faccia dell’euforia dell’onnipotenza. Come si può dunque fare breccia in questo scenario soffocante? Non è solo una questione di clinica psicoanalitica: è un’intera concezione dell’umano che dev’essere ripensata, ammesso naturalmente che non si rinunci alla posta in gioco educativa. Su questo ha ragione Edith Stein quando afferma che l’educazione «costruisce castelli in aria se non trova una risposta alla domanda “chi è l’uomo?”». E il narcisismo non sembra una risposta convincente. Non solo per i suoi disastrosi effetti malinconici, ma perché distorce la natura dell’affettività: per un soggetto, essere affetto significa infatti «un essenziale accogliere alcunché, in quanto esso viene a lui». Il che ridimensiona immediatamente la pretesa infantile di onnipotenza: se siamo affetti da altro significa – quantomeno – che per vivere non bastiamo a noi stessi. In fondo, è questo lo scopo educativo autentico: portare un soggetto «all’incondizionata accettazione della propria finitezza»7. Cosa che avviene proprio quando l’essere-affetti si trasforma in legame, cioè quando matura la consapevolezza di dover dipendere da altri per essere umani.

C’è infatti una differenza tra provare affetto per qualcosa e provare affetto per qualcuno: nel secondo caso, facciamo l’esperienza di una convenienza più profonda, cioè ci imbattiamo in un “oggetto” veramente adeguato al nostro desiderio di felicità. Questo non significa che l’altro automaticamente ci voglia, cioè sia per noi; significa però che gli affetti sono come un vettore che punta in direzione del libero e reciproco affidamento di due soggetti. Tutto ciò ci porta ad una conclusione: educare al mondo degli affetti è possibile solo facendo un’offerta di legame. Non ha senso infatti giudicare “dall’alto” gli affetti di qualcuno, senza – cioè – mettersi in gioco: l’unica legge dell’affetto è quella che ne incarna la verità fiduciale. E non c’è modo di rendere questa verità esperienza senza essere-con l’altro. Ragione per cui maestro – come anche Deleuze afferma – non è chi dice: “fai così”, ma “fai con me”. Ma allora educare al mondo degli affetti è altresì necessario: senza legami, la verità degli affetti resterebbe senza una forma adeguata, vulnerabile agli egoismi più ottusi. Difficile non scorgere che è qui che comincia la china del narcisismo. Perciò è qui che gli attori del dramma educativo sono più attesi.

di Paolo Gomarasca ( Filosofo, Docente di Antropologia, Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano) da “Quaderni di Scienza e Vita n.5”.

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