Piccoli sguardi positivi dal cinema

famiglia-baluardo
Image by Gerd Altmann from Pixabay

Il panorama cinematografico contemporaneo tende a raccontare storie dominate da un sottile ma persistente nichilismo. Storie i cui protagonisti sono antieroi, violenti o disperati, che si muovono in un mondo desocializzato, in cui si sono persi i punti di riferimento e non si intravedono vie di salvezza. Un mondo in cui aleggia un senso profondo di morte. Come se non si fosse più in grado di capire la vita, apprezzarla, coltivarla con tutti i suoi valori. Nelle commedie come nei film più tragici il quadro di fondo è questo: quello di un mondo relativista, violento, disgregato, in cui l’individuo assurge a unico giudice di se stesso e degli altri senza trovare riferimenti valoriali esterni ed universali.

Anche quando un film come Into The Wild (2007) di Sean Penn ci racconta quella che sembra la giusta ribellione di un giovane che decide di abbandonare la vita consumistica e superficiale che conduceva, per contrapporsi all’opulenza troppo spesso vuota e falsa del mondo occidentale, la scelta del giovane finisce per essere l’affermazione di potenza di un’Io nietzscheiano che si pone al di fuori e al di là del mondo, un oltre-uomo il cui approdo finale non può essere altro che quello della morte. In un panorama di questo tipo è difficile trovare storie che non si allineino a questa tendenza. Quando si trovano, però, è successo immediato. Segno che c’è un bisogno forte da parte della società di vedere raccontate storie che sappiano veicolare messaggi di ottimismo, positività, ricerca valoriale, pur presentati con tutte le problematicità del caso. Due recenti pellicole americane sembrano rispondere perfettamente a questa dinamica: due pellicole realizzate con piccoli budget, partite in sordina, ma che hanno saputo conquistare il pubblico e la critica con le loro storie minimali attraversate, però, da una vena di allegria, di speranza, di proposta in positivo.

Stiamo parlando di Little Miss Sunshine (2006) di Jonathan Dayton e Valerie Faris e di Juno (2007) di Jason Reitman. Due piccoli casi cinematografici degli scorsi anni. Juno, opera vincitrice dell’edizione 2007 del Festival Internazionale del Film di Roma, oggetto di ampi dibattiti, racconta la storia di una adolescente americana che rimane incinta e, dopo un primo momento di dubbio, decide di non abortire ma di far nascere il suo bambino per affidarlo però, subito dopo, ad una coppia, moglie e marito, che non riesce ad avere figli. La storia è stata vista ora come un’affermazione del diritto alla vita ed una precisa accusa contro l’aborto; ora, invece, come un racconto che esalta il diritto e la libertà delle donne di gestire le proprie gravidanze, rivendicandone l’assoluta ed unica responsabilità. Dal nostro punto di vista, quello che va sottolineato è che attraverso le vicende di questa sedicenne più matura della sua età, che decide di portare a termine la sua gravidanza non preventivata, la pellicola vuole raccontarci, con humor e profondità, il ritratto di un’adolescente finalmente non stereotipata, anticonvenzionale, ottimista nonostante tutto. Il suo sguardo disincantato sul mondo è in realtà una maschera che nasconde tutte le fragilità di un’età inquieta, troppo spesso non capita, che avrebbe invece bisogno di essere analizzata con più attenzione. Un film in cui finalmente si sceglie la vita e in cui si racconta la giovinezza come l’età del futuro, l’età che si proietta in avanti, che sa vedere oltre e che, forte della sua spinta, va incontro alla vita con coraggio e fiducia. E questo è quello che fa Juno, la protagonista del film, che affronta tutte le situazione che le capitano (oltre la gravidanza, anche il fatto di vivere in una sperduta cittadina nella profonda provincia americana, il fatto di avere genitori separati, di non essere “popolare” nella sua scuola, di frequentare “nerd” come lei, relegati ai margini di una società come quella americana in cui spesso si premia il conformismo, la bellezza, la ricchezza, ciò che è tutto uguale, mentre la differenza fa orrore) senza paura, con una buona dose d’ironia, che non diventa però mai cinismo, e con una certa leggerezza che le permette di non pensare troppo alle conseguenze delle sue azioni. Una pellicola capace, grazie all’ottima sceneggiatura, di sfidare le convenzioni sugli adolescenti. Contro i ritratti nello stile stupido e volgare all’American Pie e contro i ritratti di una generazione inquieta che sfoga la sua ansia nella violenza e in comportamenti lesionistici e autolesionistici. I protagonisti di Little Miss Sunshine, invece, sono gli appartenenti, divertentissimi ed irriverenti, di una sgangherata famiglia. Un padre che insegna “come essere vincenti” ad una platea di studenti di tre persone appena; un figlio che è in “sciopero” del silenzio e legge Nietzsche, facendo propria la filosofia nichilistica dell’autore tedesco; una figlia, grassottella e con gli occhiali, che vuole partecipare a tutti i costi (e vincere, anche, a tutti costi) il trofeo di “piccola reginetta della California”; un nonno dalle abitudini non troppo ortodosse e dall’eloquio sboccato; uno zio che ha tentato il suicidio, per un amore non corrisposto. Ed, infine, una povera madre che cerca di tenere uniti i pezzi di questa eterogenea e “folle” famiglia. Il loro viaggio verso un concorso di bellezza per bambine, si trasforma in una baraonda colossale, un turbinio di situazioni che porta con sé eventi positivi e negativi (ci sarà anche un morto), lanciando uno sguardo commovente verso i cosiddetti “perdenti” che si trovano a vivere in una realtà come quella americana in cui la cultura è tutta focalizzata sul trionfo dei vincenti. Lanciato con successo al Sundance Festival di Robert Redford del 2006, il film è il ritratto di una famiglia qualunque, con i suoi difetti ed i suoi pregi, che scoprirà come sopravvivere ad un mondo esterno cinico e spietato con chi non si allinea alle mode imperanti (bellezza, successo, magrezza), facendo forza su se stessa, ritrovando la coesione, comprendendo quale sia l’importanza di un unito nucleo familiare. La pellicola ha la capacità di gettare uno sguardo ironico, ma profondo, allo stesso tempo, su tematiche di grande rilevanza nella contemporaneità: la famiglia, la società e i suoi falsi miti, il senso di frustrazione che, sempre più spesso, getta le persone in una dolorosa infelicità (adulti e purtroppo anche bambini), segno del disagio che regna su gran parte dei paesi ricchi ed industrializzati dell’Occidente. Tutti i componenti della famiglia Hoover impareranno, nel loro viaggio verso la California (una terra che scopriranno popolata di “mostri” peggiori di loro, basti guardare il “popolo” delle reginette dei concorsi di bellezza per bambine e i loro familiari), che bisogna accettare i propri limiti e quelli dei propri cari, che l’importante nella vita non è vincere ma partecipare (nel senso di impegnarsi, fino all’ultimo e con tutte le proprie possibilità, a fare qualcosa di buono nella vita), e che la famiglia rimane sempre l’unico baluardo sul quale possiamo contare per affrontare il mondo e le sue difficoltà, senza essere soli.

di Paola Dalla Torre (Docente di Storia e Critica del Cinema, Università degli Studi della Tuscia di Viterbo), da “Quaderni di Scienza e Vita n.5”

dove-4191376_1280

Il battesimo di oltre 1.700 adulti in Malaysia. Lo Spirito soffia dove vuole

flowers-191909_1280

Il significato del pudore