L’ANNUNCIO DI UN FATTO.
II Cristianesimo non è un’idea, una dottrina. Non vuole fare concorrenza ad ideologie, magari politiche, o a filosofie. Il Cristianesimo è un fatto ed esige un’esperienza.
Capirlo alla luce del Vangelo è già una rivoluzione culturale.
– Card. Giacomo Biffi –
Il cristianesimo prende inizio da un «fatto». È un fatto avvenuto presumibilmente nella notte tra 1’8 e il 9 aprile dell’anno 30, e reso pubblico a partire dall’alba del «terzo giorno», dopo cioè il venerdì che ha visto la morte di Gesù e dopo il grande sabato pasquale quando di tutta la vicenda del profeta di Galilea restava soltanto un sepolcro sigillato e muto. Un fatto sorprendente e assolutamente
inatteso: le testimonianze a nostra disposizione concordano nel rilevare che i discepoli di Cristo hanno faticato non poco ad accettarlo. Le due giornate precedenti avevano distrutto radicalmente le nuove luci di verità e i palpiti di insolita speranza che erano stati suscitati nelle menti e nei cuori dal Nazareno. L’intera eccezionale esperienza, maturata negli anni di convivenza con lui, davanti alla sua tomba si era come azzerata.
Certo, non è che in loro si fosse persa ogni memoria dello straordinario insegnamento ascoltato, dei gesti e delle opere mirabili che avevano potuto vedere, soprattutto della personalità inimitabile di quel singolare Maestro. Ma erano solo ricordi: ricordi bellissimi sì, ma ridotti a scarsi residui di una immensa illusione, come la poca cenere fredda di un gran fuoco, divampato per una breve stagione e ora estinto.
Solo quando quel gruppo di uomini delusi e avviliti si arrende all’evidenza e accoglie il «fatto sorprendente e inatteso», comincia l’avventura cristiana. Comincia dunque con l’annuncio di un avvenimento «incredibile»: Gesù di Nazaret, il crocifisso morto dissanguato sul Golgota, è risorto.
Non altro, logicamente, è il contenuto delle primitive formule di fede; e proprio su di esse si fermerà la nostra attenzione.
1° La formula primordiale.
La parola eghèrthe.
La prima formula di fede è consistita in una sola parola, eghèrthe:
vale a dire, «è stato ridestato» (cioè: «è risorto»). Questo è, per così dire, il minuscolo «seme» di tutta la prodigiosa fioritura che avrebbe colmato di sé i secoli futuri. Come avviene nel seme di un albero, qui è racchiusa e nascosta – e di qui si sarebbe poi sviluppata – la lussureggiante foresta della «realtà cristiana».
All’inizio questa terminologia (eghèrthe) – che coglie l’evento in sé, senza ulteriori specificazioni – è preferita all’espressione «si è rialzato» (àvéarri – onèste: che include una qualche attività del soggetto); espressione che pure talvolta compare (cf 1 Ts 4,14).
Invece nel prosieguo della predicazione apostolica – dopo che avrà avuto modo di intervenire una certa riflessione teologica – il vocabolo che si imporrà per designare il «fatto» sarà proprio anàstasis; (cf ad esempio At 4,33; Fil 3,10; 1 Pt 1,3; 3,21).
Questa è, come si vede, la «notizia» che, a partire da quel «terzo giorno», gli apostoli andranno a proclamare «sino ai confini del mondo» (cf Rm 10,18): Gesù di Nazaret, un uomo morto sulla croce al cospetto di tutti fuori delle mura di Gerusalemme, è risorto. Ecco il nucleo primordiale della proposta cristiana.
Oggettività della formula
È da notare l’indole assolutamente «oggettiva» della formula. Non si dice affatto che il primo dato sia una «esperienza» della risurrezione di Cristo compiuta dai discepoli (cioè una «visione» o una
«apparizione»): si dice che Cristo è risorto. Si usa talvolta una terminologia soggettiva – «è stato visto», «è apparso» – ma in maniera del tutto secondaria, e di solito ponendola in dipendenza da quella oggettiva che è primaria e causativa:
– Le 24,34: «II Signore è veramente risorto (òn-tos eghèrthe) ed è apparso (òfthe) a Simone»;
– 1 Cor 15,4-8: «Cristo è morto… fu sepolto ed è risorto
(eghèghertai) il terzo giorno… ed è apparso (òfthe) a Cefa… ai Dodici… a più di cinquecento fratelli… a Giacomo… a me».
«Intrattabilità» e intelligibilità della notizia
Riguardando un «fatto» e non una dottrina, la notizia che costituisce il contenuto primordiale del cristianesimo non è «trattabile»: non può essere accettata «con beneficio d’inventario», non sopporta accoglienze «antologiche», non tollera alterazioni e adattamenti ai gusti dei soggetti e alle cangianti inclinazioni della cultura dominante. O la si accetta o la si rifiuta: non c’è spazio per le posizioni intermedie.
Poiché si riferisce al passaggio da una «condizione di morte» a una «condizione di vita» secondo il significato elementare di queste espressioni, la «notizia» è assolutamente semplice e intelligibile a tutti. Ogni uomo, anche il più incolto e sprovveduto, conosce per diretta esperienza che cosa sia «morte» e che cosa sia «vita»; e appunto con questo «contenuto elementare» la «notizia pasquale» viene all’inizio comunicata. L’annuncio cristiano – che assume i concetti di «morte» e di «vita» nel loro significato ovvio e universalmente noto – ha perciò un’indole profondamente «democratica»: non occorrono titoli di studio ne prestigiosi percorsi accademici per mettersi con esso in sintonia e prendere qualche decisione a suo riguardo. Caso mai, inverando un celebre «detto» del Signore, capiterà talvolta (ed è in effetti capitato) che siano gli acculturati e gli intelligenti a complicare le cose anche in questa questione fino a interdirsi di capirle, mentre per i «piccoli» le difficoltà (almeno quelle di ordine
intellettuale) qui evidentemente non sussistono (cf Mt 11,25).
2° Gli arricchimentì della formula primordiale
II Nuovo Testamento ci documenta poi che la formula primordiale
(eghèrthe) è stata subito arricchita da alcune specificazioni, che un esame superficiale potrebbe essere indotto a ritenere trascurabili, e invece alla considerazione più attenta e approfondita si dimostrano rilevanti e significative.
A) «E risorto dai morti»
La prima specificazione parrebbe un’ovvietà o addirittura una
tautologia: «È risorto dai morti» (eghèrthe apò ton nekròn: Mt 28,7) (ek nekròn eghèrthe: Mt 17,9; eghèrthe ek nekròn: Gv 2,22; Rm 6,4). In realtà, l’espressione intende affermare indiscutibilmente la verità della morte di Cristo, sgombrando il campo da tutte le possibili supposizioni di «morte apparente» o di interpretazione «mitica» della risurrezione. Gesù – così si vuoi dire – ha subito esattamente la stessa sorte che conclude l’esistenza terrena di ogni uomo. Perciò la sua nuova vita succede a una reale vittoria della morte su di lui, ed è perciò una «rivincita» sulla grande «nemica» (cf 1 Cor 15,26). Il suo è un inaudito «ritorno» dallo sheòi, il misterioso paese dei trapassati.
Segno esteriore (e percepibile a tutti, amici e nemici) di questa «rivincita» è il sepolcro vuoto, col quale il Crocifìsso del Golgota, tornato nuovamente a vivere, non ha più ormai rapporto alcuno:
– «è risorto, non è qui» (Mc 16,6: egèrthe, ouk èstin òde), – «non è qui, ma è risorto (Lc 24,6: ouk èstin ode, allà eghèrthe).
Se «è stato fatto risalire dai morti» (cf Rm 10,7: ek nekròn anagaghèin), allora vuoi dire che egli è vivo: veramente, realmente, tisicamente vivo. Questa è la ragione prima e più evidente dell’assoluta originalità di Cristo entro la totalità della storia umana; un’originalità che lo rende un caso unico e del tutto inconfrontabile. Potremmo dire addirittura che tale «notizia» della decisiva sconfìtta della morte, universale dominatrice del genere umano, è una prima proclamazione del carattere sostanzialmente «rivoluzionario» del cristianesimo.
Rivoluzionario e discriminante: la questione che divide senza possibilità di conciliazione o compromessi l’umanità concerne appunto lo «statuto anagrafìco» di Gesù di Nazaret: dobbiamo contarlo tra i vivi o tra i morti? A questo proposito è illuminante l’esposizione, rapida ma del tutto pertinente e adeguata, del litigio che opponeva Paolo di Tarso ai suoi accusatori presso il tribunale romano, fatta dal procuratore Festo al rè Erode Agrippa: «Avevano solo con lui alcune questioni relative alla loro particolare religione e riguardanti un certo Gesù, morto, che Paolo sosteneva essere ancora in vita» (At 25,19). Il nocciolo del «problema cristiano» è ancora questo.
«È risorto dai morti»: la specificazione, che a prima vista sembra pedantesca e inutile, serve anche a rendere esplicito e chiaro che con l’affermazione eghèrthe è intrinsecamente connesso – anzi è doverosamente incluso nella «notizia» pasquale da cui tutto prende inizio – anche l’annuncio della reale e incontestabile morte di
Cristo: essere cristiani e celebrare l’eucaristia, ammonisce l’apostolo, significa «annunziare la morte del Signore finché egli venga» (cf 1 Cor 11,26). Morte e risurrezione – insisterà poi la predicazione ecclesiale soprattutto nel contesto della catechesi battesimale – sono le due facce dell’identico mistero di salvezza.
«Veramente fu crocifisso e morì (alethòs estauròthe kài apèthanen)…
veramente è risuscitato dai morti (alethòs eghèrthe apò nekròn)», insisterà sant’Ignazio di Antiochia (Ai Tralliani IX,1-2) nei primi anni del secondo secolo, ormai con preoccupazioni antidocetiste: in polemica cioè con quanti tendevano a negare l’autenticità dell’umanità di Cristo e la consistenza di tutto ciò che in lui era connesso col corpo.