Ricordo bene la mattina del 5 giugno 2014, quando un amico mi svegliò con lo squillo del telefono riportandomi che padre Alberto, in vacanza in Italia, era morto per un attacco cardiaco in casa di un amico nella sua Forlì. Avvertii uno strano vuoto: come era possibile che l’amico di una vita se ne fosse andato? Non potevo credere alle mie orecchie. Anche perché già altri amici sacerdoti erano tornati in Italia per malattia e uno di loro, padre Danilo, era morto di leucemia ancora giovane. Amici preti che avevano sacrificato la vita per lo sviluppo della piccola comunità di Cl.
Padre Alberto era tornato in Italia nel 1999, dopo 13 anni di missione, per sottoporsi a un intervento al cuore, che andò bene. Subito chiese ai responsabili del movimento di Cl e al vescovo di tornare in missione; questi, per ragionevoli motivi, respinsero la richiesta. Ma il padre continuò a insistere, finché i superiori gli dissero: «Che sia il tuo medico a darci una risposta». «Il paziente padre Alberto sta bene e ciò che potrebbe accadere in missione può accadere anche qui. È però necessaria una cosa: l’esistenza di un ospedale adeguato in caso di urgenza e che egli sia serio nel seguire le indicazioni». Non passò un mese che si trovava già in Venezuela, dove rimase due anni, poi passò in Ecuador.
Era stato don Giussani a consegnarmi al padre, che all’epoca era già in missione in Paraguay. Accadde nell’estate del 1989. Non dimenticherò mai le parole del fondatore di Cl: «Padre Alberto, porta con te questo sacerdote e fagli compagnia». Non fu facile all’inizio, perché non ci conoscevamo, ma la sua umanità facilitò il rapporto. Come tutti gli esauriti psichiatrici avevo bisogno di una persona che condividesse la vita con me, non momenti di vita, ma la vita. Non c’era un attimo della giornata in cui non si avvicinasse per vedere come stavo e quando viaggiava mi chiamava sempre. Era un’amicizia tenera, umanissima, uguale a quella che mi aveva offerto don Giussani quando ero in Italia.
Ci sono stati momenti in cui il dialogo è stato difficile. Ciò che rompeva il ghiaccio era la confessione settimanale. Mi ricordo ancora il tono di voce quando uno dei due chiedeva per primo la confessione, un tono duro in cui si mostrava lo sforzo di rompere l’orgoglio. Ma… come era diversa poi la vita, il dialogo, lo sguardo dell’uno verso l’altro!
Niente di clericale, niente di politicamente corretto nei rapporti. Padre Alberto non aveva niente a che fare con certi preti inamidati che si trovano facilmente oggi. Non era un teologo, ma un pastore con l’odore delle pecore. Abbracciava le persone e si lasciava abbracciare, e terminata la Messa usciva nel cortile della chiesa per salutare tutti con un bacio o una stretta di mano. Un’umanità esuberante. Bastava guardarlo quando ballava “I due coccodrilli”: non solo non si vergognava ma gli piaceva vedere che la gente moriva dalle risate. Giussani un giorno mi disse: «Hai la grazia di vivere con un uomo semplice e intelligente».
La scoperta delle reducciones
La mia unica preoccupazione con il passare degli anni era avere la certezza che la nostra amicizia fosse un cammino per amare di più Gesù, non una complicità. Gli chiesi di andare a Milano per sottoporre la questione a Giussani. Lui prese l’aereo e tornò dopo tre giorni con la risposta: «State tranquilli, la vostra è una vera amicizia, una compagnia che ama Gesù». Il desiderio di conoscere la bellezza dell’America latina ci spinse un’estate a visitare i paesi del sud. Cile, Argentina, Uruguay, Brasile. Chilometri e chilometri in auto, io a guidare e padre Alberto accanto a me a recitare il Rosario, o in silenzio a osservare la bellezza che ci circondava. Abbiamo vissuto una passione particolare venendo a conoscenza delle rovine dei gesuiti e della loro storia. Una passione che ha messo nel mio cuore il seme di quella che sarà, un paio di anni dopo, la «grande opera di Dio», come papa Francesco ha definito questo villaggio di carità durante la sua visita nel 2015.
Padre Alberto, anche se già lontano da quello che la Divina Provvidenza stava costruendo qui utilizzando la mia povera persona, godeva nel vedere il frutto della nostra amicizia. Ne parlavamo al telefono ogni settimana. E la Vergine, cui eravamo molto devoti, aveva una sorpresa per entrambi: il prete che era con me dovette tornare in Italia, lasciandomi da solo… E così padre Alberto tornò in Paraguay, riprendendo concretamente l’antica amicizia. Non fu molto il tempo che condividemmo e non fu facile ritrovare il cammino, ma la memoria dell’Avvenimento ci permise di guardare più intensamente a Gesù e con questo sguardo padre Alberto se ne andò in cielo. Era solito ripetermi che il segreto della vita «è un grande amore e una grande amicizia».
Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).
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