Osservando attentamente i giochi di un suo nipotino, di appena un anno e mezzo, Sigmund Freud rilevò qualcosa di interessante. Il bimbo era solito scaraventare sotto il letto o sotto i mobili tutti gli oggetti di cui riusciva a impadronirsi: il suo divertimento consisteva nel “gettarli via” o meglio nel “farli sparire”. Ma questa era solo la prima parte del gioco. La seconda, quella davvero importante, ma ben più difficile a realizzarsi, quella che giustificava il gettar via le cose e dare a questo gettar via il suo vero senso, consisteva nel tentativo di farle “riapparire”. Quando il nonno gli diede un rocchetto di legno, attorno al quale era avvolto un filo, in modo che il bimbo, dopo averlo gettato sotto il letto, capisse di essere pienamente in grado, riavvolgendo il filo, di tornare ad impadronirsene, il gioco si rivelò nella sua “compiutezza”, dandogli la vera soddisfazione che dal gioco egli si attendeva. Per Freud, il bimbo, ovviamente a livello inconscio, ripercorreva la dinamica della scomparsa della madre e della sua ricomparsa, cioè del suo allontanamento da lui e del suo tornare a lui. Ma si può dire qualcosa di più, senza tradire – credo – l’intuizione freudiana: la scomparsa degli oggetti ne esprimeva la “morte”, la ricomparsa il loro “ritorno alla vita”, o, se si preferisce dir così, la loro “resurrezione”. Morte del vivente, sua resurrezione… potrebbe chiedere qualcuno: e la nascita? Chiaramente, la dinamica della nascita nel gioco osservato da Freud è assente, o almeno non viene percepita. Per giocare, il bambino si appropria di qualsiasi oggetto sia a sua portata di mano; il mondo delle cose, e in particolare delle cose viventi, appare al bambino (e in fondo a ciascuno di noi) come dato e ciò che è dato è ben difficile che venga problematizzato. Viviamo nel mondo, ne godiamo, ma raramente ci chiediamo il perché e il come una qualsiasi cosa possa essere venuta al mondo o comunque il senso di questo suo essere venuta al mondo. La problematicità sorge quando percepiamo che ciò che esiste può cessare di esistere e che ciò che ci è stato dato può, spesso contro la nostra volontà o i nostri desideri, esserci tolto. E’ la perdita e non il dono che ci colpisce: di qui la felicità del nipotino di Freud nel vedere che ciò che è scomparso e che appariva perduto può ben riapparire. Di qui la speranza (in alcuni di noi esplicita, ma in tutti noi implicita) che ciò che scompare, che ciò che muore, che ciò che viene distrutto non scompaia, non muoia o non venga mai distrutto del tutto: una speranza premorale (i francesi la chiamerebbero espoir), da distinguere da quella morale e soprattutto teologica (l’esperance), che non si risolve in una semplice attesa che la buona sorte venga incontro ai nostri desideri o alle nostre aspettative (come quando si attende che la pallina della roulette si fermi sul numero su cui si è scommesso), ma nella fiducia in chi può per pura gratuità venire incontro ai nostri bisogni. E’ razionale comportarsi come il nipotino di Freud? Ha senso aspettarsi che ciò che è morto torni a vivere e concentrare in questa attesa le nostre speranze e ricollegare al felice esito di questa attesa la nostra felicità? Sappiamo quanto possa essere fredda e rigorosa la risposta negativa a questa domanda. Non dobbiamo aspettarci nulla, proprio nulla, per la semplice ragione, come spiega Mefistofele, cioè il diavolo, nel Faust di Goethe, che “tutto ciò che esiste merita di essere distrutto”. Si può attenuare (ma solo lievemente) una posizione del genere, ricordando come tutto ciò che esista, e i viventi in particolare, siano sotto la legge della caducità. Il pensiero della caducità può in qualche modo togliere all’idea della fine la sua ruvida durezza e ammantarla di dolce malinconia. Ma a volte la fine può essere crudele: anche di questo il bambino acquista precocissima consapevolezza, quando è costretto a prendere atto che un giocattolo può non solo rompersi, ma rompersi definitivamente e che nessuno può essere in grado di ripararlo. Ma la consapevolezza che il giocattolo possa rompersi (e finisce inevitabilmente per accadere proprio così) non toglie certo la felicità del giocare… Heidegger, quando ci ha insegnato che il nostro è un essere-per-la morte, non intendeva certo sostenere che la vita quotidiana debba essere un continuo esercizio di ascesi, di meditatio mortis. Più semplicemente, e più profondamente, è tornato ad insegnarci ciò che i nostri padri hanno sempre saputo: la vita è collocata nell’ambito della finitudine e riceve il suo senso proprio dalla consapevolezza, che non possiamo non avere, del fatto che la morte non è semplicemente per noi una possibilità, ma una necessità.
Per gli uomini, insomma, il senso della vita dipende dalla consapevolezza della loro fragilità, dalla consapevolezza di essere mortali. Questa consapevolezza non solo non toglie senso alla vita, ma piuttosto lo istituisce (come si rende evidente nelle situazioni estreme in cui la vita appare in pericolo, a volte – paradossalmente, ma non assurdamente – per intenzione esplicita della persona stessa che accetta consapevolmente il rischio di perderla, pur di arricchirne il significato). È curioso rilevare come nel nostro tempo siano in atto dinamiche volte a nascondere o a rimuovere quanto appena detto. Per nascondere la morte perdiamo il senso della vita. Amiamo, nella modernità, rappresentare la morte in mille forme fittizie, narrative, cinematografiche, teatrali; la morte reale delle singole persone reali, però, è diventata nel nostro tempo oscena, nel senso etimologico del termine: si muore in genere fuori dalla propria casa, in luoghi “specializzati” come gli ospedali, affidati a cure mercenarie, anche se solerti e molto spesso nel contesto di inutili e futili terapie volte a prolungare accanitamente la sopravvivenza. Così come abbiamo imparato a nascondere la morte, abbiamo imparato ad uccidere, come nel caso dell’aborto, evitando accuratamente perfino l’uso di questo verbo: è indubbio che, rispetto al termine aborto, interruzione volontaria della gravidanza è espressione più gentile e poco rileva il suo vistoso carattere eufemistico. E rientra in un grande, generale eufemismo (non solo linguistico) affermare che i neonati portatori di handicap non siano esseri umani “a pieno titolo”: la loro soppressione, anziché un omicidio, dovrebbe essere interpretata come un atto di benevolenza nei loro confronti, la realizzazione del loro “diritto a non nascere”. E’ quindi coerente, in questa prospettiva, il fatto che stia sempre più spesso prendendo piede l’idea che si debba far di tutto per morire e per lasciarsi morire in modo “dignitoso”, evitando lo scandalo di una morte sofferta e inaspettata, che sconvolga l’eleganza di una vita che è degna solo quando anestetizzata e correttamente controllata dalla scienza medica, rimuovendo la possibilità stessa di un avvento della morte non preveduto (ad es. da un testamento biologico), o comunque non concordato con i medici, non pianificato da un fiduciario. Ne segue che nessun’epoca più della nostra appare interessata a gestire l’evento della morte (anche e soprattutto con opportuni interventi legislativi), attraverso pratiche obiettivamente necrofile; e che nessun’epoca più della nostra, rimuovendo la morte dalla quotidianità, sottraendola all’esperienza diretta e personale degli individui, ha mai operato con tanta determinazione per destrutturare, anche se inconsapevolmente, il senso della vita. Un illuminista, un esprit fort, sosterrà che così avviene perché non può avvenire altrimenti, perché l’atteggiamento del nipotino di Freud è appunto soltanto l’atteggiamento di un bimbo: quando si diventa adulti si dovrebbe smettere di comportarsi da bambini. Dovremmo assumere fine in fondo il peso della nostra condizione umana e non continuare a trastullarci con favole o con illusioni. Dovremmo, in breve, assumere fino in fondo il coraggio della disperazione… Avverto tutto il peso di questa osservazione. Ma avverto nello stesso tempo la sua invincibile astrazione. Di fronte alla vita ed alla morte non ci è concesso assumere come modelli gli esprits forts, per la semplice ragione che modelli del genere sono introvabili. Quelli che vivono “senza illusioni” muoiono disperati. Coloro che muoiono con serenità, fermezza e coraggio non sono gli spiriti mefistofelici, fermamente convinti di essere giunti davanti al nulla, ma quelli che nutrono la speranza che il momento della loro fine sia quello di un loro nuovo inizio: un inizio in Dio, per i credenti, nella memoria degli uomini per chi credente non sia. È la speranza a dare al morente fermezza e coraggio, non la disperazione. Educare alla vita significa educare alla speranza. È sufficiente non togliere ai bambini l’orizzonte del futuro, che è insito in loro, è sufficiente confermarli nella speranza che alla mancata vittoria al gioco di oggi seguirà certamente una vittoria, ancora più bella domani, è sufficiente cioè non togliere loro i giochi, comprendendo quanto sia importante e legittimo il loro amore per il gioco, per educarli alla vita, nel modo più autentico ed immediato. Quando non sarà più il tempo di educare alla vita, ma di narrare la vita, l’impegno che l’educatore, o il narratore, dovrà assumere sarà assolutamente analogo: narrare la vita altro non è che narrare l’insieme di tutti i giochi che ad ogni essere umano spetta di giocare, nella speranza che alle sconfitte si alternino le vittorie. A una narrazione di questo genere si offre come alternativa solo quel racconto narrato da un idiota, che non significa nulla: a tale told by an idiot, signifying nothing (secondo la potente espressione del Macbeth di Shakespeare), un racconto assordante e furioso, full of sound and fury. La vita non è questa; né dobbiamo volere che a questo essa si riduca.
di Francesco D’Agostino ( Giurista, Ordinario di Filosofia del Diritto, Università “Tor Vergata” di Roma, Presidente dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani, Presidente onorario del Comitato Nazionale di Bioetica.) da “Quaderni di Scienza e Vita n.5”.