Il senso del dolore e della sofferenza alla luce della rivelazione

Se per Rivelazione intendiamo il testo biblico che la Chiesa Cattolica considera ispirato dallo Spirito Santo, ancorché scritto da mani umane, allora è difficile dire se in esso si definisca un senso del dolore e non si dia, invece, un grande racconto di diverse esperienze di dolore che permettono di accostarne il Mistero. Il termine dolore entra nella storia biblica con la donna, Eva, definita la “madre di tutti i viventi”: “Partorirai con dolore” dice Dio alla moglie di Adamo (Genesi 3,16). Un destino che non riguarda soltanto il parto e il suo travaglio, dove la donna – nel mondo antico – rischiava spesso di morire, ma anche il dare alla luce un’umanità di dolore.

L’esperienza della maternità si trasforma in una sorta di codice genetico universale dando il via a tante forme di dolore legate alla vita umana. Il dolore di Eva si rinnova, infatti, quando Caino uccide Abele: il fratello uccide il fratello, il figlio il figlio. La terra stessa griderà questo dolore, costringendo il Dio del Cielo ad intervenire (cfr. Genesi 4,10).

Ma il flusso del sangue fratricida si perpetuerà, nella storia che la Bibbia racconta, fino alla fine, con la croce di Gesù, voluta dai suoi stessi fratelli, poiché Egli: “venne tra i suoi, ma i suoi non l’hanno accolto” (Giovanni 1,11). Anche il dolore della Croce grida al fratricidio. La prima causa di dolore nella Bibbia è, quindi, la violenza dell’uomo sull’uomo, l’odio del fratello sul fratello. Un dolore che potrebbe essere evitato se il cuore umano non fosse “incline al male” (cfr. Esodo 32,22) e non facesse: “il male che non voglio”, come dice Paolo nella Lettera ai Romani (cfr. Romani 7,19). Ma c’è un’altra narrazione del dolore che sempre deriva dalla volontà umana ed è quella della “terra che languisce” a causa della prosperità degli empi: questi la sfruttano e la calpestano per seguire i propri profitti, procurando infinite vie di dolore e di morte alle creature tutte (cfr. Geremia 12,1-6).

C’è poi, il dolore portato dalla guerra, utero di fame, di violenze e di pestilenze, nelle città assediate. Allora la città/madre piange le vittime del suo popolo dentro le mura; ancor più tragicamente quando quelle stesse mura vengono abbattute dagli attacchi dell’esercito nemico. Strazianti e sublimi sono le note del libro delle Lamentazioni nel descriverne le scene; orrore e dolore rigano i volti sfigurati delle lamentatrici che gridano * Teologa biblista, docente di esegesi, Istituto Teologico Marchigiano. 40 ad ogni angolo di strada. È il dolore di Rachele che “piange i suoi figli e non vuole essere consolata, perché non sono più” (Geremia 31,15). Ma c’è anche la sofferenza di chi è colpito non dalla malvagità umana, ma da un destino divino.

La persecuzione a causa della fedeltà a Lui, ne costituisce una ragione per quasi tutti i profeti di Israele, costretti a domandare: “Perché il mio dolore è senza fine e la mia piaga incurabile non vuol guarire? Tu sei diventato per me un torrente infido dalle acque incostanti” (Geremia 15,18). E c’è poi la malattia che sforma il corpo umano e che rompe il sonno delle notti, così come la gioia del giorno. La storia di Giobbe chiama Dio in causa all’origine del dolore: per la morte dei suoi dieci figli, per la perdita di ogni bene materiale e per quella della salute fisica. Il povero Giobbe da uomo ricchissimo che era si ritrovò a doversi grattare con un coccio, supplicando la morte. Perché?, egli chiedeva a Dio. “Se ho peccato, che cosa ti ho fatto, o custode dell’uomo?” (Giobbe 7,20). La sofferenza di Gesù si colloca sulla scia di quella di Giobbe, perché è anch’essa sofferenza dell’innocente. La Croce del Signore non può essere a ragione di una colpa, poiché Egli è “simile a noi in tutto, tranne nel peccato” (Ebrei 4,15).

Una sofferenza che scandalizza sommamente, perché non trova alcuna giustificazione, quand’anche fosse possibile darne, in ogni caso. Il senso della sofferenza di Gesù si può conoscere dopo che Egli ne ha bevuto il calice dell’amarezza sino in fondo. Attraversando quella sofferenza, Egli – dice ancora la Lettera agli Ebrei: “imparò l’ubbidienza da ciò che sofferse” (Ebrei 5,8). Vale a dire che imparò l’Amore. La sofferenza, allora, può essere una palestra di quell’Amore più alto e nobile di tutti che è la consegna di Sé. Essa acquista un valore inestimabile come luogo dove l’Amore resta acceso per sempre. E il dolore cambia, pian piano, colore, sino a confondersi con i raggi di una Gioia sconosciuta e più grande.

Rosanna Virgili – Quaderni 18 – Scienza e Vita

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