La felicità in un rivolo di bava

Imagem de Hans por Pixabay

Il bambino ha sette anni e ogni tanto lacrima. Non piange, dicono al terzo piano: lacrima. Pochi passi avanti, la vita di un uomo in un corpo avvitato come un rovo da una meningite tubercolare è legata da quarant’anni a una mano che gli porge un cucchiaino di cibo ogni giorno. In corridoio, la donna sulla carrozzina è una miracolata, l’incidente che 25 anni fa le ha portato via genitori e fratelli ha risparmiato solo lei che era appena nata senza corteccia cerebrale.
Siamo a Sarmeola di Rubano, frazione di Padova. Qui ha sede l’Opera della Provvidenza S. Antonio diretta da don Roberto Bevilacqua. Nata negli anni Sessanta per volontà del vescovo Girolamo Bortignon, l’Opera oggi accoglie circa 600 ospiti, ossia persone con disabilità fisica, intellettiva e relazionale grave e gravissima. «Ospiti, non pazienti. Qui non ci sono i numeri sui letti, non si va al “32” o al “104”, ma da Mirella a Franco e via dicendo», sottolineano Domenico Rossato, 46 anni, responsabile del servizio medico dell’Opera e Antonio Busato, 41 anni, aiuto medico, saltando in sella a una due ruote. «L’Opera è grande – spiegano – e le distanze si coprono pedalando».

I “giganti” che li hanno preceduti (i primi due medici) hanno immaginato la struttura dell’Opera come un insieme di unità abitative differenziate a seconda del tipo di handicap accolto: tre piani, tre livelli di gravità delle patologie. Spiega Rossato: «Qui abbiamo una popolazione ad elevatissimo impegno sanitario. Stati vegetativi, rachitici cronici, reduci da incidenti che necessitano di monitoraggio continuo dei parametri vitali o di ossigenoterapia. In sei visitiamo i reparti tutti i giorni per verificare la situazione di ciascuno e rilevare sul campo eventuali anomalie da affrontare nel nostro “ospedale”, dove vengono eseguite procedure che reparti specializzati, ma esterni all’Opera, non potrebbero effettuare con la stessa conoscenza del caso specifico, della persona. Un accesso venoso fatto dal dottor Busato che il paziente vede tutti i giorni è un conto, fatto da un medico esterno porta il paziente a scappare».  «Non eseguibile per mancanza di collaborazione è la risposta più frequente», conferma Busato. «Questo – continua Rossato – ha portato l’Opera ad avvalersi di specialisti e a raggiungere una buona autonomia nel campo della diagnostica». La bontà dell’approccio secondo cui è il medico ad andare dal paziente e non viceversa e l’eccellenza delle prestazioni ambulatoriali sono state riconosciute con rapporto convenzionale dalla sanità pubblica sul territorio e oggi «dall’oculistica, alla ginecologia, all’odontoiatria, neurologia, chirurgia plastica, endoscopia, anestesia, sono più di 20 i colleghi esterni che a titolo gratuito garantiscono all’Opera il miracolo quotidiano della copertura dei servizi sanitari e personalizzati in loco». Perché qui a fare la differenza è la persona, unica e irripetibile di cui prendersi cura. Così com’è.
Il bambino, con i suoi sette anni, è l’ospite più giovane. La sua “casa” adorna di giochi, disegni e colori dista pochi passi dal più anziano che di anni ne ha appena fatti cento. Non piange, il bambino: lacrima. Un’attività riflessa, non certo una dichiarazione di presenza nello stato vegetativo. Non piange: lacrima, cioè non è presente, ma c’è. E questo fa una differenza enorme per chi se ne occupa: bisogna avere ancora più cura di lui. Il gioco di squadra è fondamentale per stare davanti agli ospiti e ai familiari che sempre più non rivolgono ai medici domande di pertinenza solo sanitaria. C’è la mamma di 90 anni che non comprende perché il figlio di 60 con sindrome di down stia peggio di lei, la famiglia che non sa nemmeno di avere un parente ricoverato, la donna che si lamenta della marca del cibo servito. Per questi medici c’è tutto: paura, angoscia, speranze, critiche, son tutte lì. C’è l’ospite e l’accompagnamento alla consapevolezza dei suoi cari per cui una lacrima resterà sempre un pianto e non un riflesso condizionato. «La loro speranza è una: che il figlio, marito o compagno guarisca. Chiedono sempre “non si può fare di più?”. Casi in cui ci si chieda di fare di meno non ci sono ancora capitati».
Nessuno ha mai chiesto la sospensione delle cure. Mentre il dibattito sul testamento biologico e la dignità della vita riempie le pagine dei quotidiani, Busato e Rossato, consapevoli che gli ospiti non piangono, ma lacrimano e che garanzie di guarigione non esistono, spiegano così il loro lavoro: «I giornali sono sempre a caccia di storie, risvegli o drammi unici e irripetibili. Ma qui non c’è posto per casi da prima pagina, solo per persone uniche e irripetibili. La cui unicità sfugge ogni tentativo di regola, di etichetta. A noi chiede di essere accompagnata così com’è, di fare il medico e non il giudice della dignità della vita. Prendere l’auto per comunicare di persona a dei genitori che loro figlio è mancato. Stare a questa umanità. La mamma che ci supplica di fare di più per suo figlio e che, magari, il giorno prima avrebbe voluto farla finita, è la stessa mamma. Qui la quotidianità richiede il massimo del rispetto e della condivisione per essere anche solo intuita».

Dove non arrivano i manuali
Rossato era chirurgo vascolare prima di approdare all’Opera. Entri in sala operatoria, ripari, fine del problema. Ad ogni azione corrisponde un risultato. Busato lavorava al pronto soccorso, pochi minuti per guardare in faccia la gente e non saperne più nulla. Oggi lavorano nello stesso luogo, dove nessun manuale di medicina li aveva preparati ad essere al servizio della persona e non del risultato, a rimanere accanto piuttosto che entrare e uscire dalla vita di pazienti e familiari. «Chi ha detto che la salute è una condizione della felicità? Io qui ho visto tanto dolore. Ma non infelicità. Una nostra ospite quando era contenta sbavava. Chi può capire, senza farne esperienza, che la felicità passa anche in uno scandaloso rivolo di bava?», chiede Rossato. Il tentativo di restituire dignità a un uomo attraverso la morte suona a entrambi paradossale: «Compito del medico è stare a fianco dei vivi finché lo sono. Fare il possibile per una vita che è motivo di vita anche per i suoi cari».

Seduto dopo quattro anni
Quando ricevette un rifiuto ad un adeguamento della terapia, Rossato chiese ai colleghi di aiutarlo a parlare con i familiari del paziente. Sapeva che la condivisione del problema avrebbe aiutato la famiglia a non sentirsi sola davanti a un solo medico e a una grande decisione. E quando si trattò di rianimare un paziente non si tirò indietro, con tutte le complicazioni che un cuore che smette di battere per vari minuti porta con sé. «Non dico agli altri cosa devono fare, ma cosa farei io. Se chiede a 100 medici se il caso Englaro ha a che fare con l’eutanasia troverà 50 pareri diversi. Io ho un parametro che seguo come fosse una stella polare: ciò che serve strettamente alla vita quotidiana, respirare, mangiare, bere non lo sospenderei mai. Mi posso però chiedere se ha senso somministrare per la cinquantesima volta lo stesso antibiotico che per 49 non ha dato risultati». Chiosa Busato: «Sospendere l’acqua? Bisogna ovviamente rifiutare. Il problema qui è che il paziente non può esprimere volontà. C’è il medico, solo, davanti alla sua responsabilità. Lui, che per istinto cerca la vita».
C’è chi invoca una legge per non lasciare il medico di fronte a questa responsabilità. Poi lo vedi. Dopo quattro anni di allettamento i medici sono riusciti a mettere quel cinquantenne seduto. La lotta alle piaghe da decubito spiega solo in parte la bellezza della carrozzina che essi hanno confezionato per portarlo in giro nel parco dell’Opera. Sono circa 15 le sindromi che hanno portato al ricovero pazienti come lui «le moltiplichi solo per le prime 10 malattie che le vengono in mente e per 600 pazienti. Mi dica: c’è una regola aurea che può valere per tutti loro, al di là dello stare e valutare, giorno per giorno, caso per caso, ci dovessi mettere quattro anni a metterlo seduto?», si chiede Busato. «Quando si invocano regolamentazioni in materia sanitaria – continua Rossato – non si sottolinea che le famose linee guida di pratica medica sono risultati di accordi di convenzione tra esperti continuamente aggiornati. Banalmente, le procedure che nel 2008 adottiamo per la rianimazione di urgenza non sono quelle del 2006: non degli anni Cinquanta, di due anni fa. Cercare ad ogni costo una sistematicizzazione e una tutela legale e normativa, a mio parere, è un delirio di onnipotenza e di sicurezza. Sei un medico, e il tuo lavoro è prenderti delle responsabilità con le persone che hai di fronte, non limitarti a tutelarti dietro l’applicazione di quanto è scritto. La miriade di situazioni che incontri rende conto continuamente dell’impossibilità di esprimere una posizione unica e univoca».
Fuori dall’Opera un popolo silente prenota visite tutt’altro che mediche. Scuole, parrocchie, comunità: le storie dei medici in bicicletta della Casa della Provvidenza S. Antonio e dei loro ospiti da qualche tempo hanno un risvolto di umanità che si concretizza in un pellegrinaggio continuo di scolaresche, gruppi da tutta Italia. Prenotano e vengono qui per portarsi a casa qualcosa che non si aspettavano e che ai medici hanno detto chiamarsi “ricchezza infinita”. Quella resettata dalle cronache estive sul caso Englaro e dai soloni del testamento biologico.

Caterina Giojelli

Articolo tratto da www.tempi.it per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

Per abbonarsi : Abbonamento con carta di credito – Tempi

Storia del dogma dell’Immacolata Concezione (Padre Livio Fanzaga)

Il segreto della vera gioia è nel presepe – Benedetto XVI