La rabbia è un patrimonio, non bisogna censurarla davanti alla sofferenza.

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Image by vishnu vijayan from Pixabay

Caro padre Aldo, ti scrivo per approfittare del tuo giudizio illuminato. Rileggendo una tua intervista dicevi che riandare con il pensiero alle tue ossessioni del passato ti faceva paura. Queste parole hanno toccato un tasto dolente e irrisolto dentro di me. Quando la malattia mentale di mio marito è diventata più grave, senza che abbia percezione chiara del come e del perché, ho iniziato a provare un disagio, un’inquietudine, una paura, un’avversione nei suoi confronti che tentavo di censurare. Non era un’avversione per le cose che diceva o per il comportamento che aveva, ma per qualcosa che lo costituiva e che mi creava un senso di repulsione che cercavo in tutti i modi di contrastare.
Dopo tanti anni e innumerevoli sforzi non sono riuscita a togliermi di dosso questa sensazione. Naturalmente ho cercato di spiegarla in tanti modi, ad esempio la mia incapacità di accettare il suo disagio. Ma in realtà, confrontandomi e studiando ho compreso abbastanza bene i meccanismi della malattia e ho imparato a riconoscerli e ad accettarli. La mia domanda (senza voler arrivare in un ambito che non mi appartiene e che non conosco ma che questo mio disagio mi suggerisce) è questa: secondo te, c’è un legame tra la malattia mentale e la presenza del maligno intesa proprio come personificazione del male?

So bene che ogni forma di malattia è una forma di male che toccando la persona e chi gli sta vicino porta dolore e sofferenza. Questa percezione di un “profondamente negativo” che percepisco in mio marito (ma che non identifico con lui) è solo frutto della mia ignoranza? Oppure veramente in questa forma di male si arriva a toccare una profondità oscura che spaventa e crea il tentativo inconscio di allontanarsi da essa? Non vorrei metterti in difficoltà, costringendoti ad affrontare un disagio che hai superato… ma sono trascorsi anni da quella intervista e sono sicura che la certezza di fede che vivi oggi ti permetterà di darmi una risposta chiara e convincente.
Marta

Cara Marta, mi permetto un tentativo di risposta alla tua dolorosissima lettera con quella di Pietro, un altro che nella vita, te lo garantisco io, ha conosciuto bene che cos’è l’inferno. Nel tuo caso, personalmente non scomoderei “quello del piano di sotto”, come una mia amica chiama il diavolo. Se Dio permette che conosciamo l’inferno in questa vita è soltanto per farci conoscere, nella pazienza di un lavoro dentro una compagnia, il paradiso. La lettera di Pietro, che si definisce un non credente, è una grande provocazione, ma come vedrai, anche per lui il Mistero ha lavorato mediante una compagnia che lo ha preso per mano. Da questo inferno si può uscire soltanto consegnandosi a una compagnia che ti tiene per mano e condivide con te questo “inferno”.

Cara signora, la sua esperienza mi ha molto colpito e mi ha aiutato a leggere la mia con ancor più chiarezza. Ho trent’anni e ho sofferto per lunghi periodi di deliri, paranoie, psicosi e attacchi di panico. Nel punto massimo della mia grave depressione ho pensato anche di togliermi la vita, quando (prendimi pure per matto) ho visto sul tavolo una bottiglia di champagne di grande pregio. Mi ha colpito quella bottiglia e me la sono scolata. Tra i fumi dell’alcool mi è venuto in mente lo sguardo di mio nonno, un tipo allegro, una vita travagliata ma vissuta con un sorriso da sornione sempiterno.

Per me i fattori stimolanti della rinascita sono stati il sorriso di mio nonno e la libertà di grandi uomini (letti sui libri o conosciuti nella realtà di tutti i giorni). Avevo deciso: la malattia non mi avrebbe piegato. Da quell’istante lì sono ripartito. Non che sia successo un miracoloso e fulmineo cambiamento. Anzi. Il vero cambiamento è stato ed è il mettermi al lavoro, passo dopo passo, imparare una pazienza fino ad allora sconosciuta e tenere lo sguardo fisso sul “traguardo”.
Certo gli psichiatri mi hanno molto aiutato nel momento in cui ho riconosciuto il mio bisogno totale; inoltre mi sono fatto aiutare da chiunque riconoscevo capace di farlo. Ho comunque dovuto attingere a tutta la mia forza di volontà, impegnando tutto me stesso sia come ragione sia come affettività e gradualmente ne sono uscito. Mi sono reso conto che i pesi della vita si possono portare; e lo si può fare se ci si rende consapevoli che i pesi non sono lo scopo ma una inevitabile condizione. È paradossale, ma una delle mie più belle scoperte è che quando non si “vede” non è perché c’è buio ma perché c’è troppa luce.

La potenzialità delle donne
Vorrei ora identificare quello che per me è il vero nocciolo di questa “malattia”. Qual è la vera questione? Cos’è la “cosa” che getta il “malato” in una condizione deprimente? La mente vacilla perché tutto il dolore che prova e la confusione che la attanaglia sembrano essere “senza senso”. Questo è il punto! La sfida del depresso è la sfida di ogni uomo, sentita più acutamente. Il problema vero non è se vi sia o meno la presenza del maligno, ma riuscire a convertire la repulsione per la vita in amore.
Questo è totalmente possibile e lo dico perché ne ho fatto esperienza. La presenza del malato psichiatrico pone un interrogativo oltre che a se stesso anche gli altri. Egli lo pone “prepotentemente”, costringendo chi vi si accosta a farsi le domande vere sulla vita. Che senso ha tutto? Ma io interesso veramente a qualcuno? Ebbene, posso tranquillamente affermare che la vita mia e quella di padre Aldo stanno a dimostrare che c’è una risposta totalmente positiva a queste domande.

Da parte mia, Marta, credo di poterle dare la certezza che se la vita sembra togliere, allo stesso modo restituisce cento volte tanto. Bisogna avere il coraggio di “pretenderlo”. Marta, lei ha ricevuto uno schiaffo? Allora DEVE chiedere i danni e il risarcimento di quello schiaffo. Lo faccia domandando a Dio, se ci crede. Anche bestemmiandolo, gridandogli addosso tutta la sua rabbia. Oppure pregandolo. Troverà segnali. Non assecondi la sua rabbia, la usi. Censurare un “patrimonio” come la rabbia sarebbe un delitto.
Che la rabbia si trasformi in energia positiva e sfoci in una iniziativa che significa non subire ma costruire, scoprire, andare a fondo: è questo il vero cambiamento. Questo è il mio suggerimento: sia egoista; l’egoismo (inteso come amore a se stessi) è la parte “migliore” dell’umano. Questo sano egoismo mi ha fatto sperimentare la possibilità di una rinascita: è totalmente possibile pretendere questa rinascita.

La positività della vita avrà senza dubbio la meglio. Io sono un non credente ma la positività della vita non è in discussione. E io le posso giurare che non si gioca con la vita per vincere (cosa che può pensare un animo narciso), ma perché la vittoria è già scritta. Marta, quando si sarà accorta che la vita è bella perché l’avrà chiesto e lo sperimenterà, proietterà una luce nuova anche sull’oscurità di chi le sta attorno. Questo dolore viene solo per una nostra maturazione. Guarire non si può, si “deve”. Uno “naturalmente” non è fatto per star male anche se i tempi non li decidiamo noi ma le circostanze reali.

Un’ultima considerazione: la donna, è risaputo, è dotata di grandi potenzialità. Una barzelletta che lo documenta: C’è una vedova che porta i fiori al cimitero; davanti alla tomba del marito piange, prega, si china e poi fa la strada di ritorno camminando all’indietro. Il becchino la vede e le chiede perché cammina in quel modo. Lei, serafica e un po’ imbarazzata risponde: «Perché mio marito diceva sempre che ho un sedere che fa resuscitare i morti!».
Don Aldo Trento

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Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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