La tratta in Italia: casi studio

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Image by Lubov Lisitsa from Pixabay

Corte di Cassazione, Sezione V, sentenza n. 40045 del 2010 172

Il caso riguarda un gruppo di cittadini polacchi (19 in totale) che sono stati giudicati colpevoli di appartenere ad un’associazione criminale che aveva l’obiettivo di commettere diversi reati in Italia, tra cui la tratta di esseri umani. Gli imputati sono stati accusati di aver pubblicato su Internet – in Polonia, ma anche in altri paesi dell’Est Europa – pubblicità ingannevoli riguardanti opportunità di lavoro in Italia nel settore agricolo. Gli annunci facevano riferimento a un’adeguata remunerazione, nonché alla possibilità di ricevere servizi di trasporto e alloggio in Italia. I membri dell’associazione criminale hanno approfittato di persone straniere bisognose e hanno fatto ricorso al reclutamento ingannevole per condurle all’interno della rete della tratta. All’arrivo in Italia, le vittime sono state trasportate in diverse zone rurali del sud Italia (nella zona di Foggia), private dei documenti e poi sfruttate in aziende del settore agricolo. Non solo sono state costrette ad accettare una retribuzione inferiore a quella che speravano – o in alcuni casi nulla – ma hanno anche dovuto pagare il vitto, l’alloggio e i servizi aggiuntivi forniti dai trafficanti. Infine, le vittime hanno subito notevoli restrizioni della loro libertà di movimento, non avendo avuto la possibilità di spostarsi dalle zone remote in cui erano costrette a lavorare. La sentenza di primo grado è stata emessa dal Tribunale di Bari nel 2008 , che ha condannato gli imputati a pene detentive da 4 a 10 anni. Nel condannare gli imputati per tratta di esseri umani (art. 601 c.p.), la Corte ha sottolineato che le vittime vivevano in condizioni tali che era loro impossibile sottrarsi allo sfruttamento. Inoltre, hanno vissuto sotto continue minacce e atti di violenza da parte degli autori del reato, oltre ad essere segregati dalla comunità locale. I giudici hanno potuto individuare i diversi livelli della catena della domanda e dell’offerta della tratta di esseri umani e hanno identificato coloro che, all’interno dell’associazione criminale, erano responsabili di ogni fase di tale catena, dal reclutamento delle vittime allo sfruttamento finale. Tra le prove di questa decisione vi sono le intercettazioni telefoniche e le dichiarazioni sia delle vittime che degli imputati, nonché le precedenti operazioni condotte dalla polizia nei confronti di alcuni degli imputati. La sentenza è stata confermata nei processi di secondo e terzo grado. È importante notare che la sentenza definitiva, emessa dalla Corte di Cassazione nel 2010, ha adottato un’interpretazione estensiva del reato di tratta di esseri umani come definito nel quadro giuridico italiano. Infatti, la Corte di Cassazione ha dichiarato che era possibile condannare gli imputati per questo reato perché avevano fatto ricorso all’inganno per condurre le vittime nella rete della tratta, e non c’era bisogno di dimostrare che gli autori del reato avevano anche minacciato o commesso atti di violenza contro le persone per convincerle a venire in Italia.

Tribunale di Napoli, Sezione GIP, 11 Luglio 2017

Il caso riguarda cinque persone condannate in primo grado per l’appartenenza ad un’associazione criminale finalizzata al reclutamento e allo sfruttamento di lavoratori in aziende del settore tessile. Le vittime erano un gruppo di cittadini bangladesi reclutati nel loro paese d’origine che erano stati ingannevolmente convinte che sarebbero andate in Italia per ottenere un lavoro altamente retribuito. Tutte le vittime vivevano in condizioni economiche difficili e alcune di loro si sono persino indebitate per pagare i servizi forniti dagli autori del reato, diventando così “schiave” del debito. Secondo il Tribunale, l’imputato che gestiva l’operazione di tratta aveva fornito alle vittime documenti che consentivano loro di entrare in Italia. Le vittime avevano poi organizzato il proprio viaggio e, all’arrivo nel paese di destinazione, erano state private dei documenti e costrette a lavorare in condizioni molto diverse da quelle concordate. In particolare, mentre gli accordi iniziali prevedevano uno stipendio di 1.000 euro al mese e turni di 8 ore, le vittime erano state costrette a lavorare per 12 ore senza giorni liberi, guadagnando solo 300 euro. E’ importante sottolineare che, nonostante tutti le attività connesse tratta di esseri umani a scopo di sfruttamento lavorativo che sembrano aver avuto luogo in questo caso, il Tribunale ha condannato gli imputati per i reati di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina e sfruttamento lavorativo, ma non per il reato di tratta di esseri umani (art. 601 c.p.). Questo è significativo perché mostra una tendenza dei tribunali, soprattutto di primo grado, a non condannare i colpevoli per tratta nei casi in cui le vittime non vengono costrette, ma solo persuase a recarsi nel paese dove saranno sfruttati.

Fonte: Rapporto CILD (Coalizione Italiana Libertà e Diritti Civili) 2019 sulla Tratta

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