Il Cantico delle Creature (dai Fioretti di Santa Chiara)

Giotto, CC BY-SA 3.0, via Wikimedia Commons

Chiara pregava e piangeva dinanzi al Crocifisso.

Francesco diventava egli stesso un vivente Crocifisso. Sul Monte della Verna, dove si recava, alla fine dell’estate, a meditare fra i sassi spaccati e a pregare tra gli alberi della foresta, Francesco, nel 1224, aveva ricevuto le stimmate.

Nelle mani e nei piedi e nel costato gli si erano formate le cinque piaghe del Crocifisso, dalle quali colava sangue vivo.

Così ferito, era disceso dal monte, sopra un asino, e lentamente, dolorosamente, si era avviato in direzione d’Assisi.

“Addio, monte di Dio, monte santo. Addio, monte Alvernia. Dio Padre, Dio Figlio, Dio Spirito ti benedica. Restati in pace, che più non ci rivedremo”.

Disse queste parole dalla cima del Monte Casella, girato verso la Verna, ma con lo sguardo vago, perché ormai non ci vedeva quasi più.

Quello che il tentatore aveva predetto a Chiara, si era avverato in Francesco. I suoi occhi arrossati e dolenti erano quasi ciechi.

Giunse a Foligno mezzo morente.

Da Rieti, dove si trovava in quel momento la corte pontificia, furono chiamati alcuni medici.

Un chirurgo pensò di guarirlo bruciandogli le tempie. Francesco si lasciò tormentare, senza lagnarsi.

Disse al fuoco: “Sii benigno in quest’ora; sii con me gentile, già che ti ho amato nel Signore”.

Ma le cure non gli portavano nessun sollievo. Il corpo, ch’egli chiamava “frate asino”, era tutto un dolore. Dolevano gli occhi, nei quali la vista era come una scheggia di vetro che feriva la pupilla. Doleva il petto squarciato dalla ferita, lo stomaco ulcerato da digiuni e la milza distrutta dalla fatica. Dolevano le mani piagate, le gambe gonfie e i piedi aperti dal dorso alle piante.

In quelle condizioni Francesco, nell’estate del 1225, desiderò di riposarsi a San Damiano. Ora che era diventato simile al Crocifisso poteva recarsi tra le sue “povere donne” senza nessun timore.

“Ecce homo” poteva ripetere di sé. E Chiara lo vide giungere stremato, macilento, ferito, brancolante nel sole violento che gli faceva nera anche l’ultima scintilla di luce.

Francesco non poteva essere ospitato nel convento delle “povere donne”. Perciò Chiara gli fece costruire nell’orto una capanna di canne. Per letto Francesco non volle che paglia.

Tra gli olivi di San Damiano, sul tronco dei quali strillavano le cicale, Francesco venne curato da Chiara. Di giorno le “povere donne” gli erano attorno, cercando di portargli sollievo.

Chiara e le sue compagne ricevevano dalla presenza di Francesco dolore e consolazione. Quel vivente Crocifisso le teneva in tenera ansia.

Francesco sorrideva, accettando le loro cure, ma durante il giorno non diceva quanto tormentosa gli fosse la notte.

Quando, per obbedienza alla Regola, le porte del convento venivano chiuse, Francesco, rimasto fuori, nella sua capanna di canne, non riusciva a riposare.

Topi famelici sbucavano di sotto la paglia, addentandogli le dita dei piedi.

Francesco, piagato e dolente, non trovava requie, girandosi da un fianco all’altro. Ma invece di lamentarsi e di rattristarsi, sentiva l’anima invasa da una grande letizia. Ogni dolore gli si mutava in gioia, perché gli veniva dal Signore, che aveva sofferto per la salvezza di tutti.

Ogni cosa era bella ed era buona, perché opera del Signore, e anche il dolore e le infermità erano sante, se accettate nel nome di Gesù e della sua passione.

Soffrire con Gesù, soffrire cioè con Dio: ecco il grande privilegio, che dava a Francesco un’incontenibile gioia.

E una mattina, dopo una nottata più tribolata del solito, mentre l’alba biancheggiava sugli olivi di San Damiano, Francesco, dritto all’entrata della capanna, accolse Chiara col cantico della riconoscenza a Dio, al quale faceva eco tutto il creato:

“Altissimo, onnipotente, bon Signore,

tue son le laudi, la gloria e l’onore e ogni benedizione.

A te solo, Altissimo, si confanno

e nullo omo è degno di te mentovare.
                         

Laudato sii, mio Signore, con tutte le tue creature,

specialmente messer lo frate Sole,

lo quale è giorno, e illumini noi per lui.

Ed ello è bello e radiante con grande splendore,

di te, Altissimo, porta significazione.
                         

Laudato sii, mio Signore, per suora Luna e le Stelle:

in cielo l’hai formate, clarite e preziose e belle.
                         

Laudato sii, mio Signore, per frate Vento

e per Aere e Nuvolo e Sereno e ogni tempo,

per lo quale alle tue creature dai sostentamento.
                         

Laudato sii, mio Signore, per suora Acqua,

la quale è molto utile ed umile e preziosa e casta.
                         

Laudato sii, mio Signore, per frate Foco,

per lo quale illumini la notte.

Ed ello è bello e giocando e robusto e forte.
                         

Laudato sii, mio Signore, per suora nostra madre Terra,

la quale ne sostenta e governa

e produce frutti con coloriti fiori ed erba”.

Chiara ascoltava rapita e commossa, lodando con Francesco, Dio e le sue opere. E forse si sentiva chiara e preziosa come le stelle, umile e casta come l’acqua.

Ma più la sua anima splendeva, in quella mattina di luce, quando Francesco con la voce rotta dal pianto cantava:

“Laudato sii, mio Signore, per quelli che perdonano per lo tuo amore e sostengono infirmitate e tribolazione.

Beati quelli che lo sosterranno in pace, che da Te, Altissimo, saranno incoronati”.

Questa era la grande lezione che Chiara riceveva con immensa gioia e che avrebbe conservato con perfetta fedeltà. Perdonare per amore di Gesù; sostenere in pace e letizia tribolazioni e infermità.

L’ultimo verso del cantico era come la consegna che Francesco affidava a tutti i suoi e particolarmente a Chiara.

“Laudate, benedicete mio Signore e ringraziate e servitelo con grande umiltà”.

Il convento di San Damiano si risvegliava. In quell’angolo di Paradiso, le “povere donne” di Chiara avrebbero sempre servito il Signore con grande letizia e “con grande umiltà”.


Fonte: I fioretti di Santa Chiara

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