«Io sono Tu che mi fai». Così, con i miei disturbi e le mie paranoie mentali.

Ciao padre Aldo, ti avevo scritto due o tre anni fa raccontandoti la mia storia nella speranza di ricevere da te un consiglio o una sola parola di conforto per portare la mia croce ogni giorno. Sono ammalato di bipolarismo e disturbo compulsivo ossessivo. Quando da piccolo questa cosa si è manifestata, i miei genitori, un po’ per ignoranza e un po’ per vergogna, non l’hanno mai affrontata. I farmaci ho iniziato a prenderli quando avevo appena 18 anni, adesso ne ho 45. La mia vita è stata sempre piena di problemi relazionali e di profonda sofferenza psichica.
Per anni ho vissuto un’esasperata tensione verso il mio respiro che volevo assolutamente controllare in ogni attimo della giornata, era una profonda sofferenza perché mi rendevo conto di stare male, ma allo stesso tempo non sapevo che cosa dovevo fare. Non so come, ma sono riuscito a sopportare il tutto e mi sono persino laureato in ingegneria elettronica mettendoci però qualcosa come 12 anni. Poi, sempre roso dalle fobie, ho avuto una relazione istintiva con una donna, poi divenuta mia moglie, dalla quale ho avuto tre figlie. Lei è rimasta incinta prima che io finissi l’università. I suoi genitori da subito hanno spinto perché ci sposassimo. Siamo andati a vivere nella casa dei miei suoceri che mi hanno sempre continuamente umiliato. Sono poi nate le altre due figlie e dopo 15 anni di matrimonio mia moglie mi ha letteralmente cacciato di casa con il consenso dei suoi genitori e del nostro parroco che mi ha definito «goffo» e «poco sveglio».
Prima di questo evento i miei genitori sono morti; mia madre si è suicidata 4 anni dopo la perdita di mio padre, avvenuta per cancro. La morte di mia mamma mi ha lasciato tanta sofferenza e a volte qualche brutto pensiero di volerla imitare. La mia ex moglie ha ottenuto l’annullamento del matrimonio e ora abito presso la foresteria delle suore benedettine del mio paese. L’unica amicizia che mi è rimasta è quella con la zia materna della mia ex moglie che, sin dall’inizio della mia brutta vicenda matrimoniale, mi ha sempre difeso e compreso. Ora ringraziando Dio ho un lavoro stabile, ma dentro me provo dolore e rabbia. Il mio cuore desidera solo amare e essere amato per quello che sono e non per quanto io possa essere efficiente nella società.

Mario

Caro padre Aldo, leggo la tua rubrica su Tempi e mi si riempiono gli occhi di lacrime. Come mi succede ormai ogni giorno quando qualche cosa mi riporta al cuore il ricordo di Giuseppe. Pur senza idealizzare un rapporto che era difficile, il cuore è dilaniato e azzannato da sensi di colpa (che so essere inutili, ma che ci sono) e dalla mancanza della sua presenza. Perché a Giuseppe non è stata data la possibilità di rinascere? Perché si è lasciato determinare da questa malattia quando tanti riescono a far fiorire opere pur nel dolore e nella fatica? Continuo giorno dopo giorno a chiedere di essere certa che Giuseppe sia nelle braccia del Padre e che tutto questo dolore sia per un bene. Eppure il dolore è incontrastabile e soverchia tutto.

Marta

Ancora una volta voglio approfittare di questo spazio prezioso, per dar voce a quanti ogni giorno condividono con me le loro sofferenze, cercando parole di incoraggiamento agli infiniti “perché” che suscita l’esperienza del dolore. Molti di questi amici sono stanchi di soffrire e di vivere. È doloroso vedere come vogliono, anzi esigono una risposta, desiderando conoscere se esista davvero un’autentica risposta alla loro stanchezza esistenziale. Sono di fatto poche, tra le e-mail ricevute, quelle che testimoniano una speranza e questa cosa mi ferisce profondamente perché viene a galla quella terribile malattia che è la perdita del senso e del gusto della vita. Svegliarmi alla mattina e trovandomi tra le mani delle e-mail con dentro il grido di aiuto di persone che neanche conosco, come Marta e Mario, mi obbliga subito a riconoscere che quel grido coincide con il mio.

Un grido che fa parte della struttura dell’essere umano, mendicante dell’Infinito. Inginocchiandomi davanti al crocifisso appeso sulla parete della mia stanza, inizio la giornata gridando con questi amici: «Nelle Tue mani consegno la nostra vita, il nostro dolore. Vieni Signore Gesù, fai in fretta a soccorrerci». Alcuni minuti dopo ripeto le stesse parole nella clinica davanti al Santissimo Sacramento, presenza viva, fisica di Gesù, riconoscendo la verità profonda del mio essere e dei miei amici: «Io sono Tu che mi fai», Tu che mi fai così come sono, con le mie paranoie, coi miei disturbi compulsivi ossessivi, col mio bipolarismo, con tutto il malessere che mi accompagna in tutte le 24 ore del giorno. Il Mistero mi fa in ogni momento dentro le condizioni che mi chiama a vivere. Per le ideologie dominanti, secondo il parere di molti esperti della mente, l’essere umano è ridotto a una mera definizione, descritto da alcune categorie. Questa è la grande bugia del potere che riducendo l’io a definizione, dimentica la sua relazione col Mistero e il fatto che egli stesso è un Mistero. Pensiamo alle pretese razionalistiche che hanno definito l’uomo come una “passione inutile”, un essere per la morte, un “tubo digerente” o alla teoria che ognuno è frutto della casualità. Ma le circostanze sono date. Che speranza avrei, avremmo, se la nostra certezza (più splendente del sole anche quando la mente è ottenebrata dai fantasmi), non fosse questa: che ognuno di noi è un «Io sono Tu che mi fai»? Questa certezza sempre mi accompagna guardando e baciando ogni paziente e, ormai al crepuscolo della mia esistenza, quando visito i ricoveri per anziani trovandomi di fronte a persone che hanno vissuto la loro esistenza per la strada perdendo “il ben dell’intelletto” colpiti dall’Alzheimer o da altre malattie psichiche. Provo una tenerezza grande per ognuno, perché anche se hanno perso la coscienza di se stessi, sono in questo momento frutto dell’azione creativa di Dio. In ognuno è presente la vibrazione dell’Essere. Esistono! E questo è il grande mistero dell’essere nati e del respirare in ogni momento fino a quando Dio dirà «basta».

Siamo membra del corpo di Cristo
Cari amici Marta e Mario e quanti soffrite nell’anima e nel corpo, non abbiate paura perché, come ci ricordava san Paolo nella III domenica del Tempo Ordinario, siete membra del corpo di Cristo, e ogni membro ha la sua funzione. Nessun membro è più fortunato dell’altro perché il corpo senza un dito non sarebbe un corpo completo. La grazia che dobbiamo chiedere al Signore, tramite la Madonna è quella di immergersi in Gesù, di immedesimarci nella sua passione, morte e resurrezione. Egli ci ha scelti non solo come compagni di cammino ma anche per essere sole e luce del mondo. Il dolore – in particolare quello psichico e morale – senza Cristo è un inferno. Ma quando contemplo Gesù nel Getsemani o sulla croce, la prospettiva cambia e la vita diventa feconda. Le opere che la Provvidenza ha fatto in questo perimetro di terra lontana sono l’evidenza di questa verità. Qui ogni giorno viviamo i Misteri dell’Incarnazione, Morte e Resurrezione di Cristo. Quello che tu, Marta, vivi dopo il suicidio del tuo caro amico, consegnalo a Gesù. Consegna a Lui i tuoi “perché” nella certezza che la misericordia di Dio non è disposta a perdere un suo figlio che nella sua vita ha conosciuto la disperazione. Il peggior peccato che si può fare è quello di non fidarsi della Misericordia Divina.

Mario, che importa se il tuo parroco ti ha definito “goffo” e “poco sveglio”, per Dio sei un’altra cosa, sei unico e irripetibile. Come vorrei che lentamente la tua mente si fissasse su questo e non su quello che hanno detto di te. La prova della tenerezza di Dio verso di te è evidente nell’amicizia e nell’ospitalità delle suore benedettine. Dio ti ama e ti amerà sempre, malgrado ti definiscano malato di bipolarismo. Ricorda: «Io sono Tu che mi fai».

Aldo Trento – Tempi

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Articolo tratto da www.tempi.it
per gentile concessione della redazione (7-7-2023).

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