Torino rinnova la sua amicizia con i cristiani iracheni

Foto di Annette Jones da Pixabay

PROGETTO CONCLUSO – attualmente sostituito con questo

intervista a Padre Douglas (parroco rapito a Bagdhad lo scorso anno)

La presenza di Padre Douglas Al Bazi a Torino quest’anno ha qualcosa di diverso. Se negli anni precedenti le sue visite sono state legate al suo ruolo di referente iracheno del progetto “Io ho un nuovo amico un sacerdote caldeo iracheno” curato dall’Ufficio Pastorale Migranti dell’Arcidiocesi di Torino, la sua permanenza nella nostra città in questi giorni è invece dovuta a ciò che è successo lo scorso anno a Baghdad.

Padre Douglas, infatti, è uno dei cinque sacerdoti caldei che lo scorso anno sono stati rapiti nella capitale irachena e rilasciati dopo il pagamento di un riscatto da parte della Chiesa Caldea. Nel suo caso, il rapimento, iniziato il 19 novembre e terminato dieci giorni dopo, ha avuto conseguenze profonde. Dal punto di vista fisico le percosse di cui è stato vittima hanno reso necessario un intervento chirurgico a Baghdad per la riduzione delle fratture del setto nasale, ed i controlli e le cure cui si sta sottoponendo proprio in questi giorni a Torino. Dal punto di vista psicologico le ferite saranno ancora più profonde da rimarginare e solo il tempo potrà aiutarlo perché, come ha detto una persona che lo conosce bene: “…ride e scherza ma si vede che è molto più fragile.”

Nonostante la situazione non sia delle più propizie però abbiamo avuto modo di chiacchierare a lungo con lui del progetto di sostegno della nostra Arcidiocesi in favore di dieci giovani sacerdoti attivo già dal 2004 e riconfermato anche per l’anno in corso, ed anche della situazione in Iraq.

Padre Douglas, sappiamo anche dalle lettere che i sacerdoti coinvolti nel progetto ci inviano che il progetto di sostegno è stato loro utile per superare alcune difficoltà legate alla situazione che si vive in Iraq. Può aggiungere qualcosa?

Questo progetto è stato ed è molto importante perché le necessità che i sacerdoti hanno sono le più diverse ed a volte inaspettate. A me, ad esempio, è capitato di dover sostituire con urgenza un generatore elettrico in chiesa perché è già difficile e pericoloso a Baghdad andare in chiesa, ma restarci senza condizionatori quando ci sono 50 gradi è impossibile.

Quello che però ha reso il progetto ancora più importante è che si tratta del primo ed unico progetto di sostegno diretto ai sacerdoti. Un sostegno “nominale” che permette ad ognuno di loro di gestire l’aiuto secondo le proprie necessità.

L’Arcidiocesi di Torino è quindi l’unico sostegno esterno per voi sacerdoti?

Non direi così. Certamente la Chiesa, attraverso il Patriarcato e la Nunziatura Apostolica a Baghdad, riceve aiuti, ma questo progetto ha permesso di rendere il sostegno più personale perché l’aiuto non è solo un passaggio di fondi diretto tra chi dona e chi riceve, ma anche l’occasione per due realtà, quella di Baghdad e quella di Torino, di conoscersi, anche se a distanza.

Alcune comunità cristiane di Baghdad quindi ora sanno di avere degli amici a Torino…

Si, esatto. Specialmente quelle che sono state coinvolte non solo in questo progetto, ma anche in quello dai disegni dei bambini…

Vuol dire il progetto “Natale e Pasqua di Pace” che nel 2005 permise lo scambio di disegni, foto ed auguri tra i bambini di alcune scuole di Torino e provincia e quelli di tre chiese a Baghdad?

Si. Quello scambio ha fatto felici i nostri bambini perchè hanno capito di avere dei  nuovi amici. E’ difficile essere bambini a Baghdad. C’è un senso di solitudine diffuso, anche i piccoli capiscono ciò che stanno vivendo, soprattutto perché vivono per la maggior parte del tempo chiusi in casa per il troppo pericolo che c’è nelle strade. Le occasioni di incontro per loro sono attentamente pianificate e ricordano con piacere quella in cui hanno potuto giocare con i disegni dei loro amici italiani e hanno cercato di leggere i loro auguri. Ricordo che è stata un’occasione felice, di svago anche se, vorrei ricordare che il nostro svago, così come le nostre cerimonie sono sempre guastate dalla presenza di guardie armate e di check points davanti alle nostre chiese.

Sappiamo delle difficoltà che state incontrando come cristiani a Baghdad. Sono state proprio quelle difficoltà, infatti, a rendere necessario il trasferimento nel nord dell’Iraq del Babel College, la facoltà teologica cristiana ed il seminario maggiore caldeo…

Molte chiese a Baghdad purtroppo sono chiuse, almeno quelle nelle zone più pericolose, dove magari la Santa Messa viene celebrata da un sacerdote che ne apre una in occasioni particolari, come sarà ad esempio per la prossima Pasqua. Anche gli orari delle funzioni, a volte, vengono cambiati per ragioni di sicurezza spostando la Santa Messa dalla domenica al sabato. Non è facile per  nessuno vivere a Baghdad, non lo è per i sacerdoti ma neanche per i fedeli. L’insicurezza ed i pericoli che si corrono ogni giorno hanno determinato la fuga di una buona parte della nostra comunità che è passata da 1.000.000 a 600.000 persone nell’arco dei quattro anni successivi alla guerra del 2003. Chi ha avuto la possibilità è già fuggito all’estero, molti si sono trasferiti nel nord e solo chi non ha avuto l’opportunità vive ancora a Baghdad.

Sta dicendo che a rimanere sono stati coloro che non hanno avuto la disponibilità economica di fuggire?

In linea di massima sì, purtroppo.

Invece il clero è ancora presente in città…  

Si, ma anche molti sacerdoti hanno dovuto lasciare Baghdad per gli stessi motivi, ed ora molti di quelli che sono rimasti hanno la responsabilità di due chiese, di due comunità,  raddoppiando così i pericoli per se stessi.  

Com’è la vita dei cristiani trasferitisi nel nord curdo?

Le grosse ondate migratorie sono sempre difficili da assorbire, specialmente quando si concentrano in un breve lasso di tempo. Certamente la regione del Kurdistan offre un livello di sicurezza lontanissimo da quello di Baghdad, ma è anche vero che si tratta di un fenomeno di sradicamento. Molti cristiani sono originari delle zone settentrionali del paese ma da decenni ormai vivevano altrove, ed ora trovarsi in posti nuovi, magari in condizioni economiche sfavorevoli, non ne favorisce il radicamento veloce ed indolore. Molti di loro hanno dovuto fuggire in fretta, lasciando il lavoro, la casa, tutti i propri  averi ed ora devono ricominciare da capo. D’altra parte anche per la popolazione che li ha accolti non è facile. E’ vero che la regione curda sta vivendo un periodo di boom economico, ma è anche vero che tanti nuovi arrivati hanno bisogno di trovare una collocazione ed un lavoro, e che il mercato non può assorbire tutti, vecchi e nuovi residenti. La sola cosa che tutti sperano è che la situazione si risolva e che i cristiani che hanno abbandonato Baghdad e le altre zone del paese possano farvi ritorno, per il loro bene e per quello di una comunità che non merita di scomparire dal paese che ne ha visto le origini.

La speranza quindi è in un graduale ritorno alla normalità?

Certo, anche se probabilmente ci vorranno ancora anni. Se solo si pensa che tuttora, dopo quattro anni, a Baghdad l’erogazione continua dell’energia elettrica e dell’acqua, praticamente di ciò che tutti nel mondo danno per scontato, è ancora un sogno tranne che nella Green Zone controllata dagli americani, si capisce che se anche le tensioni politiche finissero domani la normalizzazione è ancora lontana.        

Padre, sappiamo che ricordare è per lei doloroso, vorrei quindi ritornare a parlare del progetto. Vorrei sapere, ad esempio, se i sacerdoti che esso ha iniziato a sostenere dal 2004 sono sempre gli stessi…

No. In massima parte in effetti sono uguali però, per fare un esempio, uno di loro, dopo essere stato rapito e liberato a Baghdad nel 2006 ora vive all’estero ed è stato sostituito con un altro. Un altro che ha ricevuto il sostegno del progetto per tre anni mi ha comunicato che, essendo stato trasferito nel nord, non ne ha più bisogno e lascerà quindi il posto a chi invece ne potrà trarre beneficio.

Quali sono i problemi che un sacerdote  deve affrontare giornalmente?  

Tanti, e di diverso tipo. Dal punto di vista pratico, ad esempio, quelli della gestione della chiesa o delle chiese che gli sono affidate. Se dovessi fare un elenco metterei certamente al primo posto l’incubo di tutti gli iracheni: i generatori ed il gasolio per farli funzionare. L’Iraq è un paese caldo ed il generatore per far funzionare l’impianto di  condizionamento dell’aria non è un capriccio ma una necessità. Ma i generatori spesso si rompono per sovraccarico di tensione o usura, ed il gasolio ha un costo elevato. In realtà la sua distribuzione dovrebbe avvenire ad opera del governo a prezzi normali, ma visto che non è continua tutti sono costretti a comprare il gasolio al mercato nero pagandolo molto di più. Malgrado, quindi, si cerchi di far funzionare i generatori solo quando necessario, i costi rimangono elevati e dato che non è sempre facile trovare la cifra necessaria a volte anche i fedeli contribuiscono come possono.

Questa spesa, ordinaria e straordinaria, sottrae fondi alle altre attività della chiesa che avrebbero invece bisogno di altrettanta attenzione. Per il catechismo, ad esempio, sarebbero necessari macchine fotocopiatrici, proiettori da computer, video camere e naturalmente computers.

Ci spiega l’importanza dei computers e dei telefoni cellulari? A qualcuno potrebbe sembrare che con tutti i problemi che ci sono questi siano capricci…

Non lo sono. In realtà a Baghdad ed in tutto l’Iraq sono importantissimi, malgrado a volte sia difficile o addirittura impossibile usarli. Servono a tenerci in comunicazione in un paese dove spostarsi anche tra una casa ed un’altra è difficile e pericoloso. I computers ed il collegamento internet, quindi, servono a mantenere le relazioni sociali e familiari. Anche se può sembrare impossibile, a volte, a causa dell’impossibilità a spostarsi è come se gli amici e le famiglie vivessero in due continenti diversi. Così è anche per i telefoni cellulari. Oltre a ciò, ad esempio, il collegamento internet che alcune chiese cercano di garantire è importante perché è un sistema economico per i fedeli che vogliono comunicare con le famiglie o gli amici all’estero. Diciamo che una mail si può ricevere o spedire mentre il sistema postale non è certo tra le priorità del governo…. Gli iracheni inoltre sono sempre al telefono e questo se da una parte c’entra con il nostro piacere di comunicare, dall’altra in questi ultimi anni è diventata una necessità. Il telefono serve a sapere magari che una strada è stata improvvisamente bloccata per  controlli o per un’esplosione, ma soprattutto serve a far sapere sempre a qualcuno dove ci si trova e se si è vivi. Quando sono stato rapito, ad esempio, mi hanno portato via i miei due telefoni cellulari. Perché ne avevo due? Uno non sarebbe stato sufficiente? No. In Iraq le compagnie telefoniche non coprono tutto il paese e nella stessa Baghdad ne funzionano due piuttosto bene ed una in modo molto più limitato. Il problema è che a volte il segnale dell’una o dell’altra scompare improvvisamente e se non si ha un altro telefono si rimane senza contatto alcuno..

E cambiare solo la sim card immagino sia complicato..

In teoria non lo è, in pratica però se ad esempio si sta guidando e se, come a volte accade, si ha la necessità di farlo in modo veloce per togliersi da una situazione di pericolo, diventa impossibile.

Il sacerdote si deve occupare inoltre di garantire la sicurezza alla chiesa, ai fedeli ed a se stesso. In questo senso le guardie armate sono indispensabili perché senza esse sarebbe difficile continuare le attività della chiesa. Per i fedeli è già difficile uscire per recarvisi, dobbiamo fare in modo che almeno al suo interno si sentano sicuri anche se il rumore dei colpi e delle esplosioni è ormai diventato un sottofondo usuale per chi vive a Baghdad.

Dal punto di vista morale, poi, il sacerdote deve aiutare i propri fedeli a vivere e superare questi momenti difficili. Già prima dell’ultima guerra erano molte le famiglie che venivano a chiederci i certificati di battesimo, il segno della volontà di emigrare  verso l’estero o verso altre parti del paese, ora queste richieste sono aumentate. Dietro esse però c’è molto dolore, molta incertezza sul futuro, ed il compito del sacerdote è anche quello di infondere coraggio e speranza.

Padre, lei ora vive nel nord dell’Iraq. Perché ha lasciato Baghdad?

Dopo essere stato rilasciato sono rimasto a Baghdad per essere sottoposto ad un intervento chirurgico al setto nasale e per i primi controlli, ma nel frattempo, il 4 dicembre, è stato rapito un altro sacerdote, Padre Sami Al Rays, Rettore del Seminario Maggiore Caldeo di Saint Peter e docente di Morale al Babel College. Il rapimento di Padre Sami ha accelerato il processo già avviato di trasferimento della facoltà e del seminario nel nord, che poi è avvenuto agli inizi di gennaio. Era impossibile per me rimanere a Baghdad, ed anche la mia famiglia si era trasferita nel nord, terrorizzata da ciò che mi era successo.

Ed ora qual è il suo sogno?  

Per ora, purtroppo, ho ancora più incubi che sogni. In ogni caso spero e prego di poter un giorno ritornare a Baghdad, la città dove sono nato, vissuto e che ancora amo. 

 Secondo i controlli fatti a Torino ed i medici che lo hanno visitato Padre Douglas sta bene. Solo il tempo però lo aiuterà a dimenticare quei terribili dieci giorni di questi terribili ultimi quattro anni. Il tempo e gli affetti: quelli di cui è circondato nel suo paese, ma anche nella nostra città che ancora una volta ha avuto la fortuna di ospitarlo.
Luigia Storti  UPM – Arcidiocesi di Torino

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