S. E. Card. Angelo Scola
Testo tratto dall’intervento pronunciato da S.E. il Card. Scola il 23 giugno ad Amman in occasione del Comitato Scientifico di Oasis e pubblicato su La Stampa di domenica 22 giugno.
Nella nostra società globalizzata la tensione tra liberta’ religiosa e identita’ tradizionale di un popolo si va facendo sempre piu’ allarmante. Non che in passato la questione non si ponesse. Si poneva certamente, ma su scala piu’ ridotta. Lo documenta la preziosa storia di Venezia e dei suoi millenari rapporti con il Levante musulmano.
Gli imponenti scambi commerciali e culturali che la Serenissima intratteneva con l’Est coinvolgevano un’élite ristretta. La stragrande maggioranza della popolazione restava saldamente ancorata all’interno della propria identità tradizionale.
Oggi non è più così. In un certo senso chiunque può incontrare chiunque,senza reti di protezione. Potenzialmente questo è un bene perché mette in contatto realtà vissute fino ad oggi quasi del tutto ignare le une delle altre. Un dato nuovo, che sprigiona forze impensate. È questo inedito incontro di popoli, culture e religioni che tento di descrivere con l’espressione «meticciato di civiltà e di culture», un processo storico in atto il cui esito non è per nulla scontato.
Ci sono intrecci che riescono, ma ci sono anche intrecci che non riescono. Che cosa succede – questa e’ la domanda inquietante – ad una identita’ di popolo se un numero consistente di persone inizia a metterla in discussione o perche’ proviene da un’altra religione o, addirittura, vi si converte? In alcuni paesi a maggioranza musulmana,mentre si può tollerare un certo grado di diversità per chi già nasce in un’altra religione, l’identità di popolo sembrerebbe minacciata se a chiedere di convertirsi è un musulmano. È illuminante, a questo proposito, la via d’uscita implicitamente imposta a queste persone: se vuoi lasciare l’islam, devi abbandonare il paese.
In sostanza: a noi la dimensione personale interesserebbe fino a un certo punto, ma vogliamo evitare lo «scandalo» di un gesto pubblico. D’altro canto anche le moderne società occidentali sembrano impreparate a rispondere alla domanda posta perché concepiscono la libertà religiosa come mera prerogativa del singolo individuo. Un diritto certo inalienabile, ma il cui esercizio non deve avere rilevanza pubblica: come se la religione non fosse un fatto comunitario e popolare. Una posizione questa che alla fine lascia sconcertati. Lo vediamo bene anche in Italia nella diffusa reazione al fenomeno dell’immigrazione. «Ma come? – argomentano in molti -. Ci avevate detto che era questione di convinzioni religiose dei singoli immigrati (e certamente ognuno è libero di pensare e di credere secondo coscienza), ma improvvisamente questi singoli sono diventati un corpo massiccio ed estraneo. Che ne è allora della nostra tradizionale identità?». Se vogliamo uscire da questa impasse, la soluzione va ricercata nel riconoscimento di un bene su cui poggiano le odierne società plurali, il bene pratico dell’ «essere in relazione» che trattiene in unità le diversità.
Occorre saper cogliere la comune umanità: per questo è prezioso l’invito di Benedetto XVI ad allargare ragione e libertà. In Occidente la modernità ha avuto l’innegabile merito di sollecitare i cristiani ad una riflessione più approfondita sul nesso tra la verità e la libertà. L’affermazione che la libertà si compie nella verità è certamente la stella polare del pensiero cristiano, ma questo implica, come ha sancito il Concilio Vaticano II, la «verità della libertà» come espressione della libertà di coscienza intesa in modo oggettivo ed adeguato. L’errore in sé non ha diritti, ma la persona umana ha diritti anche quando sceglie, in coscienza, il falso. Diritti non certo davanti a Dio, ma rispetto agli altri, agli altri popoli e comunità, allo Stato (“posto che le giuste esigenze dell’ordine pubblico non siano violate», Concilio Vaticano II).
Il passo che ora ci è chiesto, in Occidente come in Oriente, è quello di mettere meglio a fuoco come il rapporto tra libertà religiosa e identità di popolo incida sulla vita sociale. In quest’ottica i cristiani non intendono mettere a rischio le basi della convivenza sociale dei paesi a maggioranza musulmana ma, per essere chiari, chiedono lo stesso rispetto per la propria tradizione a chi arriva qui da noi. Il grande islamologo egiziano Anawati, un religioso cattolico, in un bel dialogo che il Centro Oasis pubblicherà tra qualche mese, diceva: «lo non studio la cultura musulmana per distruggerla. Perché distruggerla? È una cosa bella in sé. Occorre valorizzarla».
Ma il rispetto verso l’identità comunitaria non può spingere nessuno, nemmeno i musulmani, a violare la libertà umana del singolo, compresa la libertà di conversione. E in fondo, quale bene può venire alla Verità dal trattenere in una religione persone convinte di non credervi più? Davvero è più deleterio l’abbandono esplicito che una professione di facciata? Su questo noi lavoreremo ad Amman, durante l’annuale incontro del comitato scientifico del Centro internazionale di studi e ricerche Oasis, e speriamo di discuterne francamente anche con i nostri interlocutori musulmani.